Mai discutere con i politici

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Secondo una antica massima, la cui origine alcuni fanno risalire a Confucio, non bisogna «mai discutere con gli stolti, chi ascolta potrebbe non accorgersi della differenza». In effetti si tratta di un ottimo consiglio da seguire quando ci si imbatte in chi parla solo perché ha una lingua, scrive solo perché ha una mano, legge solo perché ha gli occhi e ascolta solo perché ha orecchie – ma senza conoscere il significato delle parole, né delle proprie né di quelle altrui. Incontri che diventano purtroppo sempre più frequenti in quest'epoca in cui ogni pensiero viene sollecitato a rimpicciolirsi fino ad adeguarsi alle striminzite dimensioni di un cinguettio, moderna minima.
Ma a rifletterci sopra, dietro questa millenaria saggezza non si nasconde solo una precauzione di igiene mentale. Perché il ragionamento sottostante si potrebbe tranquillamente applicare in altri contesti, con altri esempi, senza perdere in sensatezza. Ad esempio si potrebbe dire: mai discutere con un politico, chi ascolta potrebbe non accorgersi della differenza. Perché ogni discussione, ogni dialogo, se non vogliono finire in uno stolto chiacchiericcio, necessitano il rispetto di almeno due condizioni preliminari. La prima è una reciproca comprensione nell'uso del linguaggio, l'utilizzo di una terminologia un minimo comune attraverso cui intendersi per evitare di perdersi in monologhi interminabili quanto inascoltati. La seconda è una certa comunanza di interessi, quanto meno di preoccupazioni se non di prospettive. Chi vuole andare a nord non cerca compagni di viaggio fra chi vuole andare a sud. 
Quindi, per discutere con un politico occorre condividerne anche solo in parte la lingua e gli interessi. Ma per chi considera i politici come nemici, che senso ha intrattenersi con loro? Che senso ha imparare a diventare politiglotti e scambiarsi pareri con chi ha ambizioni diametralmente opposte alle proprie? Stranamente, se il consiglio di stare alla larga dagli imbecilli appare chiaro a tutti, quello di stare alla larga dai politici risulta indigesto persino a molti nemici di questa civiltà. Questo perché i primi vengono visti facilmente come una perdita di tempo, mentre i secondi invece... mah, forse, chissà, insomma, dipende, a volte, perché no? Ecco, appunto, perché no? Perché sprecare simili occasioni, che per di più capitano spesso e volentieri? Si tratta di una domanda che spinge l'aspirante interlocutore di politici a formulare altri suoi dubbi poco esistenziali, ma assai indicativi su quali siano i suoi reali interessi.
Chi si domanda «perché rifiutare di confrontarsi con un politico?» sembra dimenticare che con i nemici non ci si confronta, ci si scontra. Non è una differenza di poche lettere, è una differenza di molta vita. Un confronto è una giustapposizione compiuta allo scopo di effettuare una valutazione, il momento dell'incontro di due o più parti allo scopo di istituire un rapporto reciproco che permetta ad altri di valutare somiglianze, affinità, differenze. Uno scontro è sì un incontro, ma ostile e violento. Non ci si mette l'uno accanto all'altro per farsi valutare da terzi – manovalanza da comandare, pubblico da sedurre – ci si combatte.
Chi si domanda «non si pensa di avere sufficentemente ragione?» sembra dimenticare che la ragione della libertà è altro ed in opposizione a quella di Stato, non simile e in competizione. Marcare o sfumare questa differenza è una precisa scelta di campo. Chi detiene il potere non va corretto, consigliato, sostituito, raddrizzato. Va eliminato. Non c'è una ragione unanime da far trionfare a suon di dati, statistiche, o perizie. Tanto meno a colpi di retorica e sentimentalismi. Non esiste una verità da rivelare e con cui illuminare.
Chi si domanda «si ha forse paura di venire contaminati?» sembra dimenticare che non è certo un mistero il fatto che la politica corrompa. Non è un rischio da temere, un'ipotesi più o meno lontana, è una banale constatazione storica di cui prendere atto. Cosa che non fa chi è talmente umile e modesto da ritenersi più astuto e intelligente e forte di tutti coloro che in passato hanno già provato a frequentare i politici con i risultati che ben si conoscono. 
Chi si domanda «si è così arroganti da non degnarsi di rivolgere la parola agli altri?» sembra dimenticare chi sono questi altri. Si parla a coloro che eventualmente si vorrebbe raggiungere per coinvolgere e sobillare. Ci si rivolge a chi si trova nelle nostre stesse condizioni di vita, anzi, di sopravvivenza – sfruttati, oppressi, alienati, governati, dominati – non a chi li governa, a chi è responsabile di questa condizione. E se con gli altri ha poco senso usare una lingua esoterica e gergale comprensibile ai soli iniziati, lo ha ancor meno usare la lingua di legno dello Stato, quella capace unicamente di coniugare il predicato potere fra il soggetto istituzione ed il complemento diritto. 
Non meraviglia che simili interrogativi e simili amnesie tormentino soprattutto chi ha già un piede nella piazza ed uno dentro il mercato – l'agorà, appunto – dove si sta scaldando a vendere la propria merce ideologica, a confrontarla con quella esposta sulle bancarelle adiacenti, a dare battaglia ai propri concorrenti. L'aspirante interlocutore saltimbanco può anche fare a meno di precisare che non intende discutere con i politici per persuaderli, nessuno ne dubita. Lo fa per convincere il loro seguito. Per strappar loro la clientela.
Bisogna quindi ammettere che se discutere con gli stolti è inutile, farlo con i politici potrebbe rivelarsi utile. Utile, sì, sinonimo di guadagno, tornaconto, profitto. Perché in effetti chi è in cerca di un buon affare non può che giungere a questa conclusione: sempre discutere con un politico, chi ascolta dovrebbe accorgersi della somiglianza.

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