La globalizzazione dal basso o il disastro globale dall’alto

 Dal Web 

Sarà troppo tardi.

 Mettere o meno il punto interrogativo davanti a questa asserzione è un compito che spetterebbe ai grandi regolatori delle dinamiche politiche che, a loro volta, dipendono ...


Sarà troppo tardi.
 Mettere o meno il punto interrogativo davanti a questa asserzione è un compito che spetterebbe ai grandi regolatori delle dinamiche politiche che, a loro volta, dipendono (e scelgono di dipendere) in larga parte dai dettami della finanza e del mercato. 
Si parla del clima per parlare di guerra e viceversa. 
Perché, dopo aver dato avvio ad una politica innovativa in campo energetico, e quindi anche ecologico, la Germania sta facendo una inversione a U non da poco.

Le risorse di gas che le servivano per produrre energia elettrica si stanno piano piano esaurendo, lasciate già magramente sotto al livello di sufficiente stoccaggio per oltrepassare l’autunno che verrà da quella Russia putiniana che sapeva di impegnarsi, prima o poi, direttamente nel conflitto in Ucraina. 

Quindi, proprio il governo tedesco, guidato anche dall’Alleanza 90 / I Verdi, mette mano al piano di riconversione ecologica che avrebbe dovuto portare la Germania oltre il carbone nel 2030 e che, nonostante le rassicurazioni di Berlino, adesso non è più così scontato.

Tutto sembra attardarsi, indugiare, tergiversare innanzi alle grandi catastrofi della modernità esaltata proprio dai sostenitori del liberismo a tutti i costi: la pandemia ha reso evidentissime le problematiche legate alla privatizzazione dei servizi emergenziali, di quella sanità che dovrebbe essere pubblica per natura e che, invece, è sempre più in mano alle logiche del profitto. 

La guerra, ora, sembra costringere i governi a ripensare quelle toppe che intendevano mettere sul grande problema della sopravvivenza dell’umanità in un pianeta devastato dall’umanità stessa, dove i tempi per non oltrepassare il punto di non ritorno sono sempre più stretti.

Sembra che ci si arrivi, un po’ guccininamente cantando, per contrarietà, quando ci si sbatte il grugno sui grandi problemi che ci affliggono: la natura ci sta dicendo che siamo noi un problema e che sono problemi ancora più grandi quelli che creiamo ad un ecosistema che, altrimenti, prescindendoci, seguirebbe il suo corso.

Si discute del rapporto tra ecologia e politica, ecosistema ed economia da molti decenni. Anzi, se ne discute dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando il tema atomico è diventato dirimente per le sorti di quel fragile equilibrio tra blocchi contrapposti, tra USA e URSS, tra NATO e Patto di Varsavia, tra Occidente e Resto del Mondo, che ha smesso di essere tale con la fine di uno dei due, con il venir meno di un bipolarismo sostanziale che aveva passato la mano ad un unipolarismo formale e assolutamente provvisorio, se visto nei tempi lunghi di consolidamento dei grandi centri economici e finanziari.

La frenetica corsa alla depredazione delle risorse naturali è iniziata sul finire dell’800 ed è proseguita senza sosta durante tutto il “secolo breve“, sostenuta da un’inarrestabile progressione delle conoscenze scientifiche che hanno perfezionato i metodi di sfruttamento dei beni comuni e del pianeta stesso: sottosuolo, suolo, foreste, laghi, mari e persino l’aria, lo spazio sono stati e sono luoghi di conquista umana e, pertanto, di arretramento dell’ecosistema, di compromissione del suo sviluppo.

La tragedia della guerra (o sarebbe meglio dire: “delle guerre“), ugualmente a quella della pandemia in questo caso, ha soltanto tolto gli orpelli di moraleggiante ipocrisia sulla necessità della modernità spinta, sul suo fondarsi su una logica di liberalizzazioni diventati pilastri di quelle operazioni finanziarie che si sono susseguite nei decenni determinando le più grandi speculazioni per grandi imprese, colossi del capitalismo tanto americano quanto euro-asiatico.

E’ a partire dalla fase liberista iniziata negli anni ’70 che si può iniziare a parlare di “finanza globale“, a dimostrazione che l’impatto economico sul pianeta diventava totalizzante e sfuggiva persino alle influenze esercitate da una singola nazione sulle altre. 

Le alleanze politiche, stipulate nell’ordine della convenienza economica e con la prospettiva di potersi divincolare dalle dipendenze di qualche superpotenza esistente o emergente, hanno avuto un ruolo di mediazione in politica estera, di confronto fra le accelerazioni produttive o le depressioni e stagflazioni che si venivano manifestando anche improvvisamente.

Si è passati, così, da un Germania del dopoguerra priva di qualunque risorsa, ridotta in macerie alla “locomotiva d’Europa“: i grandi investimenti di quelle potenze alleate che l’hanno divisa per renderla politicamente innocua, hanno fatto dell’economia tedesca il centro propulsore si una Unione Europea che ha finito con l’essere molto poco conveniente per i britannici, rimasti – per la verità – sempre piuttosto guardinghi nei confronti delle riforme continentali.

Quello che pareva essere sviluppo, aumento di benessere, incremento delle ricchezze, si è rivelato un inganno da luna park, uno specchio deformante, un abile trucco non di magia ma di una politica economica in cui all’importanza sociale del lavoro, ed al suo legame con l’altrettanto importante rispetto delle risorse naturali e del pianeta, si è sostituito il primato del mercato e delle liberalizzazioni.

Quella che oggi sembra una inversione a U della promessa tedesca di riconvertirsi all’ecologismo, di eliminare il carbone come fonte di energia inquinante, è in realtà un ennesimo adeguamento della politica al pragmatismo degli interessi nazionali che rientrano – è ovvio – nel più grande mercato comune europeo, nella stabilità dell’Unione, nel suo fare fronte ad una impetuosa avanzata imperialista russa che mostra i muscoli in Donbass con le armi classiche e che, con armi altrettanto efficaci, lavora per fronteggiare le contromosse occidentali verso l’economia di un paese attraversato da undici fusi orari.

Come negli anni ’90, allorché i paesi europei e il Fondo Monetario Internazionale imposero alle nazioni più povere un regime concorrenziale devastante proprio con l’espansione di un “libero” mercato che aveva la necessità di trovare nuovi territori e popoli da sfruttare, la ridefinizione degli spazi economici e finanziari oggi si è giocata prima con la pandemia sul piano scientifico, tecnologico e sanitario, ed ora con tutto l’indotto produttivo che la guerra galvanizza, a cui promette enormi affari a discapito della vita di milioni di persone e della tutela dell’ambiente in cui vivono o sopravvivono.

Il ritorno al carbone per un paese come la Germania è quasi una nemesi storica. 

Soprattutto se si pensa ai movimenti sociali che si sono andati implementando, che hanno dato forza all’ecologismo politico in gran parte dell’Europa e che, proprio in questi ultimi anni, hanno ripreso vigore davanti alle drammatiche perturbazioni atmosferiche e ai disastri cui assistiamo quasi quotidianamente maledicendo la natura e non noi stessi. 

La marea giovanile dei “Fridays for future” aveva concesso la speranza a noi tutti che l’ecologismo fosse ancora declinabile socialmente e politicamente e, per di più, lo fosse grazie ad una presa di coscienza delle giovani generazioni.

La pandemia prima e la guerra poi hanno smorzato i toni delle rivendicazioni ambientaliste. Le grandi corporazioni industriali a capo delle estrazioni carbonifere, petrolifere, della gestione dei gasdotti e degli oleodotti sostengono i nuovi blocchi geopolitici che stanno formando e che determineranno le sorti del pianeta per i prossimi decenni.

La loro organizzazione è, proprio come all’inizio del nuovo millennio, e come lo era alla fine del precedente, molto solida, in grado di esercitare quelle pressioni forti sui governi, rendendo la volontà elettorale di un popolo, la sua “sovranità“, un accidente di percorso, ammansibile con promesse, contenibile con la repressione. Di contro, le organizzazioni dei lavoratori, sindacati, partiti, associazioni e spontaneismi di base, non hanno fatto questi stessi progressi: non sono riusciti a consolidare una nuova “internazionale” dei salariati (che pure sono 2 miliardi e mezzo nel mondo…) e hanno visto, invece, ridursi sempre più velocemente il proprio potere contrattuale.

Le aree del “libero mercato” si sono saldate fra loro e si sono preparate ad affrontare le sfide di un liberismo per molti versi molto più ingestibile delle precedenti fasi del sistema capitalistico. 

Si sono costituite in associazioni fondate su trattati come il TTIP per mettere l’asse intercontinentale dei paesi ricchi contro le aree più depresse e disagiate del pianeta. Dall’Africa all’America Latina, dall’Asia meridionale a buona parte della regione mediorientale.

Inquadrata in questa prospettiva di più lungo corso, anche la guerra in Ucraina assume un connotato molto differente da un semplice conflitto scatenato per il controllo di due regioni russofone e russofile di un paese nato dal crollo di uno dei due blocchi della Guerra fredda. Mosca punta al Donbass per controllare l’economia di tutto il Mar Nero, di ciò che vi transita e per stabilirsi lì definitivamente, senza lasciare più l’ombra di un porto a Kiev.

La guerra in Ucraina costringe solo parzialmente i paesi europei come la Germania a scegliere l’inversione a U sul riutilizzo del carbone per produrre energia elettrica. Indubbiamente, se Mosca chiude le valvole dei gasdotti, resta poca scelta tanto al governo tedesco quanto a qualunque altro paese che sia impegnato nel conflitto con la formula della “procura“. 

Ma si tratta di scelte da cui si potrebbe approfittare per iniziare da subito (il che è comunque sempre troppo tardi) a ripensare tutte queste dipendenza: sia da altri Stati sia da fonti energetiche inquinanti e devastanti il pianeta tanto quanto la guerra devasta le vite di ogni essere vivente.

Scegliere di non dipendere più dal gas russo per dipendere poi da quello algerino, non è risolvere il problema strategicamente, cercando di dare seguito ad una futura politica energetica pulita, “green“, da “riconversione ecologica“: è agire tatticamente, senza una visione di insieme, senza una prospettiva di lungo corso. 

Noi possiamo anche salvarci questo autunno e l’inverno che ne seguirà dallo stare al freddo e al buio per mesi, ma non avremo nemmeno provato a risolvere il problema andando alla sua fonte, alle sue radici.

E’ proprio a causa dell’egoismo liberista di questi tatticismi opportunistici che lasceremo alle prossime generazioni una Terra desolata, devastata e priva di un futuro.

 Lo sanno tutti, soprattutto quelli che difendono i loro interessi, i grandi profitti, gli immensi capitali confinati nei fondi speculativi, nelle transazioni finanziarie scudate opportunamente da protezioni legali create ad uopo.

L’ecologismo finisce con l’essere un elemento esornativo se non riprende vigore dalla disperazione sociale e se non la unisce a quella del pianeta tutto. 

Ambiente, animali non umani e mondo del lavoro umano devono lavorare ad un medesimo obiettivo: scardinare questo cortocircuito perverso, creare una globalizzazione dal basso che sia l’esatto opposto di quella tutt’ora egemone e totalitariamente dominante.



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