Città sostenibili a zero emissioni a sostegno degli impegni dei governi nazionali

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Una transizione verso città a zero emissioni nette di carbonio (carbon neutrality) offre un'immensa opportunità per garantire la prosperità economica nazionale e migliorare la qualità della vita, affrontando al contempo la minaccia ormai sempre più evidente dei cambiamenti climatici. Ma per riuscirci ci vuole coraggio!


di Antonio Lumicisi 
Una transizione verso città a zero emissioni nette di carbonio (carbon neutrality) offre un'immensa opportunità per garantire la prosperità economica nazionale e migliorare la qualità della vita, affrontando al contempo la minaccia ormai sempre più evidente dei cambiamenti climatici. La realizzazione del potenziale delle città richiede un'azione coraggiosa da parte dei governi nazionali, lavorando in stretta collaborazione con i governi locali, le imprese, la società civile, gli istituti di ricerca e altri partner.
E’ stato di recente pubblicato il rapporto “Climate Emergency, Urban Opportunity” da parte della Coalizione per le transizioni urbane, un’associazione che promuove il ruolo delle città nella lotta al cambiamento climatico. Al rapporto hanno contribuito decine di organizzazioni coordinate dal World Resource Institute (WRI), il Ross Center for Sustainable Cities e il C40 Cities Climate Leadership Group. Anche il più importante network europeo di città, il Patto globale dei Sindaci per il clima e l’energia, ha dato il proprio contributo. Unanime è il loro messaggio: la battaglia per salvare il nostro pianeta si vince o si perde nelle città.
Obiettivo principale del rapporto è quello di mettere in evidenza che investire per la sostenibilità ambientale è conveniente anche da un punto di vista economico, visto che molto spesso sembra essere solo questa la leva che fa muovere i decisori politici. A noi “ambientalisti di una certa età” bastavano le prime due dimensioni della sostenibilità, quella ambientale e quella sociale, ma sono anni ormai che anche la dimensione economica viene analizzata approfonditamente e questo rapporto è l’ennesima prova che investire su un pianeta ove si possa ancora respirare aria pulita è anche un buon business.
Innanzitutto ricordiamo che nelle città vive oggi oltre il 50% della popolazione mondiale (che salirà al 66% nel 2050), si produce l’80% del PIL e, non ultimo, si emettono i tre quarti delle emissioni di gas climalteranti dovute ai consumi finali di energia. Dal punto di vista amministrativo, inoltre, le città, quindi i Comuni con i propri Sindaci, rappresentano gli Enti territoriali più vicini al cittadino, con maggiore forza per dialogare sul territorio e contribuire a quella modifica dei comportamenti individuali che rappresenta, sempre di più, l’unica strada da seguire per cercare di affrontare seriamente l’emergenza climatica.
Ma quanto ci costa? E con quali benefici?
Sulla base delle analisi svolte dalla Coalizione per le transizioni urbane, con un investimento di circa 1.830 miliardi di dollari all’anno (circa il 2% del PIL mondiale) si genererebbe un risparmio annuale di 2.800 miliardi di dollari nel 2030 e di 6.980 miliardi nel 2050. In definitiva, si stima che si potrebbero finanziare misure di riduzione delle emissioni di gas climalteranti con un risparmio complessivo, al 2050, pari ad almeno 23,9 mila miliardi di dollari (equivalente al 28,2% del PIL mondiale). Con un’ipotesi realistica di prezzi crescenti dell’energia e innovazione tecnologica più spinta, si salirebbe a valori intorno ai 38,2 mila miliardi di dollari. In tal modo si ridurrebbero anche le emissioni in media di circa il 90% rispetto ai livelli attuali (nello specifico, del 96% dagli edifici commerciali e residenziali, del 76% dall'uso di materiali, dell'86% dal trasporto di passeggeri e merci e di oltre il 99% dalla gestione dei rifiuti solidi) raggiungendo quindi anche quasi la neutralità carbonica come richiesto dagli scienziati del clima a livello mondiale, e il tutto usando tecnologie già note e disponibili, senza quindi agognare a qualche soluzione tecnologica del futuro. Una città carbon neutral effettivamente al 100% con zero emissioni nette si potrebbe raggiungere entro la metà del secolo solo con un dispiegamento ancora più aggressivo delle misure esistenti o con ulteriori innovazioni.
Nello specifico, sul totale del potenziale di abbattimento, il 58% della riduzione delle emissioni deriverebbe dal settore degli edifici, il 21% dai trasporti, il 16% dall’efficienza dei materiali e il restante 5% dal settore dei rifiuti; settori ove si è concentrata questa ricerca in quanto, come si ribadisce più avanti, di diretta competenza delle amministrazioni locali. La metà del potenziale di abbattimento identificato in questa analisi deriva dalla decarbonizzazione dell'elettricità consumata a livello urbano, principalmente attraverso la generazione di elettricità da fonti rinnovabili come il solare, l’eolico, l’idroelettrico, la biomassa e la geotermia. Oltre al beneficio dovuto alla riduzione delle emissioni climalteranti, vi sarebbero anche altri benefici relativi alla riduzione delle emissioni inquinanti, lasciandoci quindi un’aria più respirabile, una minore congestione del traffico urbano con conseguenti migliori servizi ai cittadini e un aumento della produttività locale.  
In uno scenario del genere, non si avrebbe soltanto un pianeta con un’aria più respirabile, si godrebbe anche di un clima più fresco. Infatti, il rapporto calcola che una tale riduzione delle emissioni climalteranti nelle città contribuirebbe per circa la metà a mantenere gli aumenti della temperatura terrestre entro i due gradi centigradi, come previsto dagli Accordi di Parigi. Al contrario, se non si agisce subito, il rapporto cita le stime elaborate da un gruppo di enti di ricerca sul clima (New Climate Institute, Ecofys e Climate Analytics) che prevedono un innalzamento della temperatura media di 3° C rispetto ai livelli pre-industriali entro la fine del secolo. Si ribadisce ancora una volta che per mantenere il riscaldamento globale non superiore a 1,5 ° C sopra i livelli pre-industriali, le emissioni di anidride carbonica dovranno quasi dimezzare entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010, e poi azzerarsi intorno al 2050.
I benefici globali di una riduzione delle emissioni deriverebbero anche dai minori costi per la spesa sanitaria, da una maggiore inclusione sociale e da aumenti della produttività. Senza contare gli 87 milioni di nuovi posti di lavoro che si creerebbero entro il 2030, in particolare nel settore della riqualificazione energetica degli edifici, e i 45 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2050, in particolare nel settore dei trasporti. Con un tale approccio e, quindi, intensità dell’investimento, i costi di molte azioni, per esempio nel campo dell’illuminazione pubblica, dei veicoli elettrici e del miglioramento del sistema della mobilità si ripagherebbero in tempi brevissimi (meno di cinque anni), di fatto si ripagherebbero da sole. Per alcuni settori, come ad esempio l’illuminazione pubblica, si è già molto vicini a questo obiettivo e diverse amministrazioni pubbliche ne stanno approfittando.
Governo locale e nazionale possono collaborare?
La capacità operativa delle amministrazioni locali risulta molto spesso limitata a causa di alcune barriere. Se da un lato il contributo che le città, così come la società civile e il settore privato, possono dare risulta fondamentale per affrontare l’emergenza climatica, c’è da considerare che questi soggetti non hanno impegni vincolanti nell’ambito degli Accordi di Parigi o in altri strumenti di politica climatica. Sono i Governi nazionali ad avere degli impegni vincolanti da rispettare. Si torna quindi sull’idea già espressa diverse volte di una maggiore sinergia tra i diversi livelli di governance. In teoria, i Governi nazionali hanno formalmente riconosciuto l’importanza delle città nel momento in cui hanno adottato l’obiettivo n. 11 degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG11) che impegna i Paesi a “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”.  Ma dalla teoria è necessario passare alla pratica con un’azione concreta. L’ideale sarebbe che l’iniziativa partisse proprio dai governi nazionali; al momento, si illustra nel rapporto, meno del 40% delle Nazioni ha definito una propria strategia per le aree urbane e al momento solo sette Paesi in tutto il mondo hanno approntato dei Piani nazionali per le politiche urbane che affrontano contemporaneamente i temi delle aree cittadine e dei cambiamenti climatici. Altrimenti, la maggior parte dei Paesi tratta i due temi separatamente facendo giusto riferimento al tema dell’adattamento e della resilienza. Sempre più si dovrà lavorare in stretta sinergia su questi temi perché i Paesi che diventeranno leader domani sono quelli le cui città realizzeranno con successo una transizione equa e sostenibile verso una nuova economia urbana. Già definiti come i principali centri di produzione e consumo, quello che succederà nelle città nel prossimo decennio sarà di fondamentale importanza per i paesi di tutto il mondo. I decisori politici nazionali, con le loro scelte di indirizzo generale, possono aiutare a mettere le città sulla strada della prosperità e della resilienza, o, al contrario, del declino e della vulnerabilità.
Tra i casi concreti analizzati nel rapporto, ove i governi nazionali e locali hanno lavorato insieme per migliorare profondamente la qualità della vita nelle città, per l’Europa viene citata la città di Copenaghen il cui Piano Clima 2025 avevamo già presentato . Nella capitale danese una joint venture tra il governo nazionale e quello locale fu creata nei primi anni ’90 proprio per costruire e gestire la metropolitana che aprì la sua prima linea nel 2002. Già dopo il primo anno gli spostamenti in auto sono diminuiti in media di circa il 3% durante i giorni feriali. Il 29 settembre è stata inaugurata la nuova Circle Line (M3), realizzata come le prime due linee da aziende italiane, con una grande festa in città e mezzi pubblici gratis per tutti per tutto il giorno, che attirerà sul servizio di trasporto pubblico circa 100.000 nuovi passeggeri al giorno. La cultura della bicicletta dagli anni ’70 (il 43% degli spostamenti casa-lavoro-scuola avviene oggi in bicicletta) e un’opportuna tassazione nazionale sull’acquisto e mantenimento di un’auto privata (a Copenaghen ci sono 360 auto per 1.000 abitanti mentre Roma ne ha 641) hanno fatto il resto. E dire che lo sviluppo di Copenaghen poteva essere diverso visto che subito dopo la II Guerra Mondiale si era impostato uno sviluppo urbano (Finger Plan) basato su cinque arterie autostradali lungo le quali si sarebbe espansa la città. L’aumento dei prezzi del petrolio e la forte opposizione pubblica hanno spinto il Governo nazionale a prendere provvedimenti costituendo l’Autorità Regionale di Copenaghen Capitale per facilitare una pianificazione dei trasporti e della mobilità integrati e, di fatto, modificare il piano di sviluppo della città. Molte città a rapida crescita si trovano oggi nella stessa posizione: investire in un sistema basato sull’utilizzo delle auto private o sulla connettività urbana?
Questo ed altri esempi dimostrano come la scala e il ritmo del cambiamento necessari per raggiungere gli obiettivi delineati dal SDG11 e fare in modo che le città diventino carbon neutral sono sia tecnicamente che politicamente fattibili. Le città di Londra e Montreal hanno già evidenziato, ad esempio, il netto disaccoppiamento tra lo sviluppo economico del proprio territorio e le emissioni pro-capite di gas climalteranti. Ovviamente, l’obiettivo di città a zero emissioni non potrà essere raggiunto senza significativi progressi nella lotta alla povertà e alle disuguaglianze che, in alcune regioni del mondo, rende la sfida ancor più stimolante. Quasi tre quarti (71%) del potenziale di abbattimento delle emissioni a livello urbano identificato in questa analisi si trovano in paesi al di fuori dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che identifica, in generale, il gruppo dei paesi più industrializzati. Le città cinesi rappresentano il 22% e le città indiane rappresentano il 12% delle riduzioni delle emissioni identificate. Nei paesi OCSE, nel frattempo, oltre la metà del potenziale di abbattimento urbano si trova nelle città degli Stati Uniti, che rappresentano il 15% del potenziale globale. I governi nazionali e statali in Cina, India e Stati Uniti hanno quindi ruoli particolarmente importanti da svolgere nel sostenere una transizione urbana a zero emissioni.
Il rapporto si conclude suggerendo sei azioni prioritarie che i Governi potrebbero seguire, adattandole eventualmente alle proprie circostanze:
1)    sviluppare una strategia nazionale per la decarbonizzazione mettendo al centro le città;
2)    allineare le politiche nazionali allo sviluppo di città compatte, connesse e pulite;
3)    finanziare infrastrutture urbane sostenibili anche attraverso l’introduzione di una carbon-tax, come già fatto da 45 paesi nel mondo;
4)    coordinare e sostenere le azioni locali delle città sul clima;
5)    costruire un sistema multilaterale che promuova città inclusive a zero emissioni;
6)    pianificare in modo proattivo un’equa transizione urbana.
Queste azioni hanno alla base i concetti urbani di “compattezza”, “connessione” e “pulizia” che rappresentano i punti principali per trasformare una città a zero emissioni.  Le città “compatte” sono più efficienti dal punto di vista delle risorse da consumare perché utilizzano meno spazio per residente e forniscono maggiori opportunità per il trasporto di massa e i sistemi di tele-riscaldamento/raffrescamento; le città “connesse” massimizzano e condividono i benefici dell’agglomerazione riducendo le emissioni di gas climalteranti, tenendo bene in mente che l’obiettivo è quello di far muovere le persone e non le auto; le città “pulite” sono caratterizzate da un uso efficiente dei materiali e dell’energia con l’elettrificazione dei principali servizi (riscaldamento, cucina, trasporti) e la decarbonizzazione della fornitura elettrica, da una forte riduzione e poi successivo riciclaggio dei rifiuti solidi urbani e, infine, da un utilizzo di soluzioni naturali (nature-based solutions – NBS) ogni volta che è possibile.
Ma non basta ridurre le emissioni…
Non per essere pessimisti ma sappiamo bene che una transizione verso città a zero emissioni, di per sé, non eviterà completamente gli impatti dei cambiamenti climatici. Anche se il riscaldamento globale fosse mantenuto al di sotto di 1,5 ° C, gli shock climatici ci saranno e renderanno più difficile l'eliminazione della povertà e lo sviluppo economico. Le politiche e gli investimenti urbani devono quindi cercare di ridurre contemporaneamente le emissioni, migliorare la resilienza e sostenere lo sviluppo economico sostenibile per costruire città in cui le persone possano soddisfare le proprie esigenze e perseguire le proprie aspirazioni. Un impegno a migliorare gli standard di vita e a non lasciare indietro nessuno può servire anche a sostenere il contributo pubblico a favore del clima: è improbabile che i paesi che non avanzano verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) raggiungano gli obiettivi stabiliti nell'Accordo di Parigi.
Questa prospettiva dimostra che un’azione forte per ridurre le emissioni di gas a effetto serra non può essere intrapresa isolatamente: mitigazione, adattamento e sviluppo sostenibile devono essere perseguiti in sinergia. Non è facile, ma risulta essenziale per poter affrontare adeguatamente le tre sfide di oggi relative al rallentamento dell'economia globale, all’allargamento della disuguaglianza e all’accelerazione dei cambiamenti climatici. I casi di studio analizzati nel rapporto dimostrano che quei pochi paesi e città che hanno già messo in pratica questa visione stanno già sperimentando la transizione al ritmo e alla scala richiesti e che i loro sforzi hanno prodotto immensi miglioramenti nella qualità della vita dei cittadini.
La Coalizione per le transizioni urbane incoraggia quindi i governi nazionali a prendere spunto dai casi presentati e dalle raccomandazioni contenute nel rapporto per elaborare il loro prossimo documento di programmazione sul clima (Intended Nationally Determined Contribution – INDC) da inviare alle Nazioni Unite nel 2020 affinché contenga una strategia di lungo termine per promuovere città inclusive, a zero emissioni di carbonio e resilienti.
E in Italia …
Stimolato dalla lettura del rapporto, ribadisco alcune considerazioni sul nostro Paese già espresse anche in precedenti articoli. L’Italia si trova nel momento giusto per dare un  segnale forte: dalla bozza del Piano Nazionale Integrale per l’Energia e il Clima (PNIEC) si evince che il settore non-ETS, che include quei settori ove le amministrazioni cittadine possono avere un ruolo determinante (trasporti, residenziale, rifiuti, agricoltura), è quello ove ci si attende una riduzione delle emissioni climalteranti di circa il 35% al 2030, rispetto alla baseline del 2005 (per il settore ETS relativo invece ai grandi impianti industriali, la riduzione attesa è del 56% circa). Sorvolando sull’opportunità che il nostro Paese possa puntare ad obiettivi di riduzione più ambiziosi al fine di diventare leader, in Europa e nel mondo, di alcuni settori industriali, è evidente che per formalizzare il ruolo sinergico che esiste tra le amministrazioni locali e gli sforzi che il Governo nazionale intende perseguire nella lotta al cambiamento climatico, un riferimento chiaro sul ruolo delle città DEVE essere inserito nel redigendo PNIEC.  Da qui potrà innescarsi quel circolo virtuoso che vedrà valorizzate le azioni locali (al momento volontarie) quali concreto contributo al raggiungimento dell’obiettivo (vincolante) nazionale di riduzione delle emissioni. E magari cominciare ad essere un po’ più ambiziosi puntando all’obiettivo di medio-lungo termine di sostenere la transizione verso città a zero emissioni, primo passo per un Paese a zero emissioni, che è poi l’obiettivo sottoscritto anche dal nostro Paese per il 2050.
Visto che la popolazione urbana è in continua crescita è importante valutare bene oggi quali investimenti fare nei prossimi dieci anni. Il rapporto ci dà una traccia sulla tipologia degli investimenti da perseguire, sottolineandone anche la convenienza economica.  In Italia, ad esempio, affermare nel PNIEC che al 2040 avremo ancora una dipendenza energetica superiore al 67% (principalmente dovuta all’importazione del gas) significa che si sta decidendo oggi quale sarà il combustibile del futuro per il nostro Paese. A parte una domanda banale che dovremmo porci: cioè, come pensiamo di ottemperare all’obiettivo sottoscritto della neutralità carbonica al 2050 se al 2040 ancora abbiamo un tale contributo del gas che è una fonte fossile? Faremo tutto negli ultimi dieci anni? Dopo aver investito centinaia di miliardi per le infrastrutture a supporto dell’importazione e distribuzione del gas? E’ evidente che c’è qualcosa che non torna in questo ragionamento. Ma le decisioni vanno prese adesso! Ribaltare le proiezioni, e ipotizzare che invece del 67%, al 2040 relegheremo al gas un contributo inferiore al 30% significherebbe impostare una diversa politica industriale nel nostro Paese. Per non parlare degli aspetti legati alla sicurezza: purtroppo basta leggere le cronache giornaliere per capire che l’utilizzo del gas in città sta diventando anche un problema di incolumità (a Roma sono oltre 5.000 i km di tubazioni del gas che si intersecano, quando valide alternative ci consentirebbero di far viaggiare nelle tubazioni semplice acqua calda, come nei sistemi di teleriscaldamento, con certamente meno problemi in caso di perdite).  
Certo, ribaltare quella proporzione sul consumo di gas significherebbe l’eliminazione (ma sarebbe più corretto parlare di riconversione) di posti di lavoro nel settore delle fonti fossili a fronte comunque dell’apertura di nuovi posti di lavoro - e in misura nettamente superiore in termini quantitativi e qualitativi - nei settori delle fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, della riqualificazione edilizia e della mobilità sostenibile. Ci auguriamo che il Governo italiano non perda questa occasione e persegua appieno le potenzialità del Paese per un reale sviluppo sostenibile.

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