Nel mondo del possesso, non avere niente è un'arte
Dal Web
Sembra un'eresia scrivere sulla difficile e affascinante arte di non avere niente in un'epoca dove tutto si basa sul possesso e l'accumulo di cose materiali, di titoli, di riconoscimenti.
di Paolo Ermani
Salvatore La Porta nel suo libro Less is more – Sull’arte di non avere niente esamina la questione facendo un interessante excursus fra letteratura e personaggi di grande levatura che in qualche modo hanno rappresentato direttamente o analizzato questa nobile arte nei loro scritti. Laddove il non avere niente non significa solo un'assenza di possesso o di proprietà, ma anche libertà assoluta da dogmi, condizionamenti e imposizioni, tutti aspetti che fanno una terribile paura all’autorità e a chi deve per forza avere irreggimentazioni, recinzioni mentali e sicurezze ma allo stesso tempo affascinano grandemente per il senso di libertà assoluta che danno.
Si legge nel libro: «Soltanto chi ricerca la conoscenza o la bellezza per se stessa può creare qualcosa di completamente nuovo; chi ha la mente ingombra di concetti come autorità e accademia non ha spazio né coraggio per trovare strade nuove. Inoltre, spesso non ha neanche la motivazione per farlo, perché la ricerca del bello e del giusto non è fine a se stessa, ma ad acquisire un titolo di studio, una cattedra o a farsi una carriera. E per quello basta seguire il percorso indicato e ossequiare l’autorità».
Le citazioni e gli esempi sono vari come quello di Christopher McCandless sulla cui storia è stato tratto il film Into the wilde in una lettera a un amico scrive sul cambiamento.
«C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo».
Dall’esempio di McCandless, La Porta analizza il rispetto che si nutre verso chi fa scelte giudicate estreme, quando poi a ben vedere una scelta estrema al giorno d’oggi è vivere in una città invivibile o fare un lavoro nocivo per se stessi e gli altri, privo di senso o che si odia.
«L’arte di non avere niente - si legge ancora - affascina da sempre l’essere umano, perché significa libertà, coraggio e coerenza. Tutte qualità che nella vita di un uomo sono presenti in determinate percentuali, ma che in quelle (spesso brevi) di chi è completamente dedito alla sua pratica sono presenze assolute: chi non ha il coraggio di seguirne l’esempio fino in fondo prova comunque rispetto e amore per chi ne è rapito».
Ma La Porta indica anche strade dove è possibile trovare un senso maggiore rispetto ad una vita votata all’accumulo, all’arrivismo alla competizione sfrenata.
«Potrebbe essere rilassante, allora, sfilare i canini dal collo del prossimo, dedicando le nostre energie alla ricerca di noi stessi piuttosto che all’accumulo compulsivo di ogni cosa, rendendoci conto che lo spazio della nostra esistenza è limitato, ingombro per natura, e va gestito con parsimonia. Si può rinunciare a uno stipendio più cospicuo in cambio di tempo, al prestigio di un ruolo in cambio di sincerità nei rapporti con le persone, alla sicurezza del futuro in cambio della libertà di cambiare idea. Si può persino rinunciare a ogni cosa, oppure a molto, almeno a qualcosa: l’alternativa è rinunciare a se stessi. Se diventiamo solo quel che possediamo, perdiamo irrimediabilmente la nostra umanità».
Sostanzialmente La Porta fa intervenire i cosiddetti valori e gli aspetti non monetari dell’esistenza che sono gli unici che possono mettere in crisi un sistema votato al suicidio. E fa una rivisitazione di Epicuro che non può che trovarci assolutamente d’accordo avendo trattato molto questi argomenti nei nostri scritti.
«Epicuro non desiderava altro che vivere privo di ogni cosa superflua, ricercando la verità e un piacere quieto senza lasciarsi divorare dalla malattia del possesso. La sua filosofia era un’acuta analisi della natura, capace di anticipare il pensiero scientifico, e un farmaco morale che raccomandava all’uomo di fuggire i piaceri dinamici (la gloria, il successo o la ricchezza) che, acquisiti, lasciano più insoddisfatti di prima, per dedicarsi a quelli statici: le necessità primarie, il cibo semplice, l’amicizia».
Si spinge ad esaminare argomenti tabù come quello della coerenza che ormai è praticamente una specie a rischio di estinzione e chi la pratica è considerato un povero scemo che non sa stare al modo perché per motivi insondabili non concepisce ad esempio l’approfittare e lo sfruttare gli altri.
«Se la paura è sempre paura di perdere qualcosa, allora il coraggio è la capacità di mettere in pericolo i propri averi, i propri affetti, le proprie idee per conseguire qualcosa di più importnte: la coerenza fra le proprie azioni e ciò che si ritiene giusto o desiderabile. La fine dell’asincronia».
E infine una grande citazione di Checov.
«Io…sono arrivato al punto di poter dormire nudo per terra e divorare l’erba: Dio conceda a tutti una vita simile. Non ho bisogno di nulla e non temo nessuno, e a mio parere non c’è uomo più ricco e libero di me».
Riflessioni importanti che ci ricordano come è possibile trascendere i propri limiti, mettere in discussione le proprie convinzioni e provare una nuova dimensione, darsi nuove risposte a sempre più profonde domande arrivando fino all’essenza del proprio essere che ha ricchezza e profondità al cui confronto le ricchezze dei paperoni del mondo sono di una miseria assoluta.
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