Guerra delle monete: la Corea risponde alla Bce

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Sembra l'uovo di Colombo, invece è un atto di guerra. Il quantitative easing messo in atto da lunedì da parte della Bce è solo una delle tante azioni operative sui mercati globali in questa fase, tutte dello stesso segno e per lo stesso scopo: difendere la competitività delle economie ricadenti sotto quella moneta il cui valore viene “modificato” da una banca centrale.
Come si insegna nelle scuole elementari di logica, se tutti fanno la stessa cosa nello stesso momento il risultato non potrà essere raggiunto. O per lo meno non sarà quello messo in preventivo o sperato.
Il maggior vantaggio possibile da questo genere di operazioni è già stato conseguito dalla Federal Reserve statunitense, la prima a portare i tassi di interesse a zero e poi cominciare a “spargere denaro dagli elicotteri”, immettendo quantità mostruose di liquidità (85 miliardi di dollari al mese, per quasi due anni) per abbassare il valore di cambio del dollaro e favorire così sia le esportazioni americane che, soprattutto, la “ripresa” dell'economia nazionale. Scopo apparentemente raggiunto, con buona crescita dell'occupazione (dimenticando i quasi 90 milioni di yankee senza lavoro né forze per cercarlo), e se non ci si pone il problema di che tipo di occupazione sia: “lavoretti”, diremmo in Italia, come commessi di supermercato, addetti alla ristorazione, basse qualifiche nella sanità (un effetto indiretto dell'”Obama-care”) e via elencando posizioni precarie.
Stesse mosse, subito dopo, da Canada e Giappone, seguite dalla Bce solo per quanto riguarda lo schiacciamento dei tassi di interesse. Fino alla mossa disperata di questi giorni.
Stamattina, però, anche la Banca di Corea (terza economia asiatica) si mette in scia, portando i tassi al minimo storico dell'1,75%. Ieri aveva fatto lo stesso o quasi la banca centrale thailandese.
 Una scelta inevitabile, se si vogliono difendere le quote di mercato globale conquistate negli anni da queste economie. Perché la “competizione” si può fare in molti modi: con i bassi salari o l'assenza di diritti per i lavoratori dipendenti, con il dumping, con l'introduzione di barriere normative (sì o no agli ogm, per esempio), con la svalutazione, ecc. Diciamo che la svalutazione è la cosa più semplice, meno conflittuale all'interno di ogni paese o area monetaria. Mentre le sforbiciate a salari e diritti sono sempre un po' più a rischio (ciò nonostante, come sappiamo in Italia e nell'Unione Europea, stanno agendo pesantemente anche su questo fronte).
La mossa coreana era perciò obbligata, visto che anche lì l'inflazione viaggia ai minimi dal 1999 (a febbraio era allo 0,5%); e soprattutto che le esportazioni, nel frattempo, erano calate del 3,4%, deprimendo quindi le attese di crescita del Pil (le stime sono state ridotte al 3,4% dal precedente 3,9%).
Mossa diversa, ma con logica simile, anche da parte cinese: ha tagliato i debiti alle amministrazioni locali per 1.000 miliardi di yuan, ossia 160 miliardi di dollari. Perché – qualcuno lo spieghi a Merkel e Schauble – se hai un debito troppo pesante da ripagare, la “crescita” te la puoi scordare... Lo sanno benissimo, naturalmente; solo che loro difendono la crescita tedesca a scapito di tutti gli altri partner continentali...
Tutte mosse della stessa natura, insomma, e per lo stesso obiettivo, che purtroppo – pur essendo “comune” - è in realtà un fattore di guerra. Se cresco io a scapito tuo, ovvio che tu ci perda. Un logico, anche di bassa lega,  perché mai sia così necessario rincorrere la "competizione", quando la "cooperazione" sarebbe di certo più efficace?
 Ma logica e capitalismo viaggiano su pianeti diversi e in via di allontanamento rapido.
L'effetto poco gradito a Washington è che tutte queste mosse stanno vanificando quella statunitense, riportando il dollaro a quotazioni troppo alte per poter mantenere la da poco ritrovata “competitività”. Lo scenario più probabile, a bocce ferme, è che il Pil statunitense smetta di crescere, che le esportazioni diminuiscano, che l'occupazione ne risenta. A quel punto la Fed, che stava meditando con molta calma sull'ipotesi di “tornare alla normalità”, facendo risalire un poco alla volta i tassi di interesse, dovrà probabilmente rivedere le sue intenzioni. E mantenere “permissiva” la propria politica monetaria. Non per avvantaggiarsene, stavolta, ma per difendersi.
Pesa, oltretutto, la possibilità – sempre più concreta – che di pari passo al prossimo scavalcamento cinese rispetto al Pil statunitense (quest'anno la Cina supererà gli 11.000 miliardi di dollari; e all'attuale ritmo supererà gli Stati Uniti nel giro di cinque-dieci anni) si verifichi anche lo scenario-terremoto più temuto dagli yankee: la sostituzione del dollaro come valuta mondiale di riferimento.
Non si tratta di “orgoglio nazionale ferito”, ma di una questione di vita o di morte. Attraverso l'uso disinvolto del dollaro, infatti – al tempo stesso moneta nazionale, unità di misura internazionale e moneta di riserva globale – dal 1971 gli Stati Uniti hanno potuto scaricare sul resto del mondo ogni crisi che hanno generato al proprio interno (ossia all'interno del mercato finanziario globale). Semplicemente “stampando” dollari che il resto del mondo doveva accettare a un “valore” garantito più dal Pentagono che non dalla struttura produttiva.
Perdere questo “vantaggio competitivo” sarebbe la fine. Quindi la “guerra delle valute”, nei prossimi mesi, salirà di tono, livello e dimensioni. E dovremo persino essere (moderatamente) contenti che resti soltanto una guerra monetaria...

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