Una democrazia partecipata
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La democrazia che verrà è la democrazia stessa: democrazia dell’accoglienza, della solidarietà, della partecipazione che, tenuta in fondo, ultima non è di certo. Potrebbe suonare strano dire di una partecipazione che deve ancora venire, abituati come si è a tornate elettorali anche troppo frequenti, a elezioni primarie per indicare la leadership dei partiti, a sondaggi d’opinione ascoltati più dei profeti e degli indovini di un tempo.
· Una convivenza democratica si struttura nel dialogo serrato tra il momento della partecipazione e quello della responsabilità decisionale. Da questo dialogo dipende la vita e la sopravvivenza di ogni democrazia. Partecipazione e responsabilità non stanno però su sponde diverse dello stesso fiume, come sembra lasciar credere la maniera corrente di intenderle: partecipare compete anche a chi ha il mandato e il dovere di prendere le decisioni; e la responsabilità investe chi partecipa ben oltre il singolo momento elettorale. Nelle democrazie occidentali la forbice tende invece a divaricarsi, e si colloca su piani separati ciò che ha senso soltanto nell’interscambio costante. E così, chi partecipa non decide, e chi decide non partecipa.
· Sulla partecipazione che democraticamente manca ancora, vale la pena d’insistere. La democrazia in difetto di partecipazione è quella circoscritta a una tecnica politica, come bilancia di poteri, come strumento di consenso, come metodo tra gli altri per decidere chi deve decidere. Per una simile democrazia il partecipare svolge un ruolo in definitiva tecnico e burocratico, tutto ripiegato sulla salvaguardia del sistema. Sulle interpretazioni tecnicistiche della democrazia è dall’inizio del Novecento che rimbalza, con Max Weber, il sospetto che sia forse destinata prima o poi a morire proprio di burocrazia.
Qualcosa è mancato nel partecipare democratico, ma cosa? È inutile rivendicare la partecipazione se i motivi per farlo sono tutto sommato corretti senza riuscire però a mettere allo scoperto il punto caldo del problema. I motivi con cui si invita normalmente a partecipare – i diritti, la libertà, la capacità stessa delle persone – sono serissimi ma di una serietà un pò troppo “moderna”, perché continuano a fare perno sulla prima persona. E ruotando tutto sommato intorno all’io, non si va al fondo del partecipare con gli altri.
Qualcosa è mancato nel partecipare democratico, ma cosa? È inutile rivendicare la partecipazione se i motivi per farlo sono tutto sommato corretti senza riuscire però a mettere allo scoperto il punto caldo del problema. I motivi con cui si invita normalmente a partecipare – i diritti, la libertà, la capacità stessa delle persone – sono serissimi ma di una serietà un pò troppo “moderna”, perché continuano a fare perno sulla prima persona. E ruotando tutto sommato intorno all’io, non si va al fondo del partecipare con gli altri.
· Per partecipare con gli altri biogna ricordare due cose essenziali: che la persona umana è tanto più se stessa quanto più è capace di collaborare, e dunque non è assimilabile a un individuo già tutto compiuto in sé prima del suo rapporto con gli altri; e soprattutto, che non si può partecipare senza concedere credito, senza credere, nell’esistenza degli altri.
· Che gli altri esistano lo sappiamo benissimo nelle interazioni quotidiane, a volte felici, a volte noiose, a tratti violente. Ma sapere che gli altri ci sono non significa per nulla dare credito alla loro esistenza. Il semplice sapere che un altro esiste non significa ancora avere fiducia nel senso della sua esistenza. Dare credito all’esistenza degli altri si traduce sotto tutti i punti di vista – sociale, economico, politico, intellettuale – nelle pratiche e nelle logiche della partecipazione e della cooperazione. Chissà perché, in un’epoca che ci ha abituati molto ai ritornelli della morte di Dio e di quella dell’uomo, si parla così poco di un ateismo altrettanto grave e altrettanto in luce, vale a dire dell’incapacità di avere fiducia nell’esistenza degli altri.
· Hannah Arendt, in Vita activa (1951), osserva che la «presenza di altri che vedono ciò che noi vediamo, e odono ciò che noi udiamo, ci assicura della realtà del mondo e di noi stessi». Più o meno negli stessi anni un’altra donna, Maria Zambrano in Persona e democrazia (1958), avvisa che la «democrazia è la società in cui non è solo permesso ma è addirittura richiesto essere persona»; «raggiungeremo l'ordine democratico solo con la partecipazione di tutti in quanto persone, il che corrisponde alla realtà umana». Gli altri ci rassicurano di noi stessi. Nella persona umana si trova, originariamente e sullo stesso piano, tanto il suo inarrivabile segreto che nessuno può strapparle quanto la propensione a oltrepassare se stessa nel rapporto con gli altri, a partecipare.
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Finché non si dà credito all’esistenza degli altri, al posto di una democrazia partecipata ci saranno soltanto conti e numeri, bilance perpetue di singole unità accatastate le une sulle altre e spostate di qua e di là, strategie e manovre, calcoli e intrighi. Finché l’altro non viene nella sua stessa diversità, nessuna democrazia verrà, nessuna accoglienza, nessuna solidarietà, nessuna partecipazione.
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