Il rifiuto creativo dell’ideologia del lavoro
http://comune-info.net/2014/03/contro-il-lavoro-carlsson/
Chris Carlsson
Chris Carlsson
La vita moderna ha per fulcro il lavoro salariato. L’agenda neoliberale e l’etica protestante hanno speso molte energie per una campagna ideologica con cui fare del lavoro il centro di tutto, la strada per accedere al credito e ai beni di consumo. Quel mondo è in crisi. Anche se la cultura del “fa’ ciò che ami” è ancora molto forte e restiamo circondati da un coro senza fine a favore del lavoro, si sono aperte crepe impensabili. Sempre più persone quando non sono al lavoro a fare soldi, sono impegnate duramente su progetti che hanno scelto, in cui possono creare e, lavorando gratuitamente, smettono di sostenere l’ideologia del lavoro. Capita, ad esempio, negli spazi di riparazione di bici fai da te, negli orti comunitari, nei progetti di software libero indipendente che il mercato, infatti, vorrebbe fagocitare. Ma quando la vita quotidiana si basa su “collettività orizzontali autogestite nei luoghi di lavoro, nel vicinato, nelle scuole, città”, spiega Chris Carlsson, la trasformazione sociale è profonda. Non sappiamo bene come favorirla, di sicuro molti hanno cominciato a cercare “la strada per una vita radicalmente migliore di quella del mondo in cui viviamo ora”
“A cosa o a chi serve la conoscenza?” Una buona domanda sul muro di una scuola chiusa a Porto Alegre, Brasile. Potremmo chiederci la stessa cosa sul lavoro. L’ho già detto e lo dirò ancora: il lavoro non funziona. L’intera struttura della vita moderna ha per fulcro il lavoro salariato. Non ha veramente importanza se si tratta di un miserabile lavoro a salario minimo (o meno!) o a sei cifre (o di più) bè, ha importanza per te, visto che fare più soldi è evidentemente meglio che farne meno. Ma la logica più profonda della nostra relazione su come costruiamo la vita, come riproduciamo le condizioni materiali e sociali della nostra esistenza quotidiana è piuttosto simile indipendentemente dalla scala dei salari.
In quest’epoca, se non stai spingendo un carrello della spesa alla ricerca di lattine e bottiglie, o viaggiando nel tuo jet privato verso il prossimo circolo o l’inaugurazione di una galleria, probabilmente descrivi te stesso come appartenente alla classe media. Questa autodefinizione comporta conseguenze sociali a cui non pensiamo e di cui non parliamo abbastanza. Se qualcuno ti chiede cosa fai, probabilmente rispondi con il lavoro per cui sei pagato prima di cambiare in fretta argomento, dato che dire quanto tu ne sia insoddisfatto probabilmente significa solo dare di te un’immagine negativa. E’ socialmente proibito discutere su quanti soldi si fanno davvero, anche se confrontare stipendi e benefit in maniera più trasparente sarebbe invece di molto aiuto per tutti. Invece ci si aspetta che ardiamo di orgoglio su come mercanteggiamo le nostre capacità umane di creatività, impegno, condivisione, competenza, ecc. per una cifra di denaro vaga, ma sempre apparentemente adeguata. I lamenti vengono guardati con aria di disapprovazione, sia che riguardino il lavoro in se stesso, l’azienda per cui si lavora o il misterioso livello di retribuzione. Maledire il capo va bene, ma a qualsiasi lamento si riceve la stessa scontata soluzione: trovati un altro lavoro.
Semplicemente non è consentito in una conversazione o, ancor di più, nell’immaginazione il concetto che il lavoro sia di per sé un problema. Che l’organizzazione degli esseri umani in un’economia capitalista fondata sul lavoro retribuito (a ore o annualmente) conduca necessariamente la grande maggioranza a una profonda solitudine, frustrazione sulla propria incapacità di influenzare il mondo che ci circonda attraverso ciò che facciamo tutto il giorno, disperazione per il vuoto della propria vita quotidiana e un circuito chiuso di confusione e auto-illusione verso se stessi che si autoriproduce.
La rivista Processed World
Scrivo di questo (e lo vivo, in misura diversa) dagli anni 70, quando sono diventato adulto. Forse perchésono cresciuto frequentando le scuole elementari dei quartieri del centro a Chicago e Oakland, dove gran parte della mia esperienza di istruzione era del tipo di noioso intorpidimento della mente e ripetitività, ho imparato presto a nascondere il mio vero io dietro una piatta conformità alle aspettative. Si è rivelata una eccellente preparazione per la maggior parte dei lavori che ho ottenuto all’inizio. Fu il calderone di esperienza da cui venne fuori il mio coinvolgimento in Processed World (rivista fondata da un gruppo di dissidenti che lavoravano nel distretto finanziario di San Francisco,ndt) – che ho co-pubblicato 32 volte come parte di un fluttuante collettivo aperto dal 1981 al 1994, e un paio in più nel 2001 e nel 2005. Abbiamo iniziato la rivista nel 1981, non molto dopo che avevo smesso di lavorare con contratto a termine nel distretto finanziario di San Francisco, ma la maggior parte degli altri compagni sul progetto lavorarono in Abusement Park per anni ancora. In Processed World scrissi I Tales of Toil, fiction e analisi serie e, dopo tanti anni, sentimmo che avevamo detto tutto. Tuttavia erano ancora poche le persone che avviavano un dibattito più ampio.
Lo pubblicammo nel 1993 in Processed World #31, ma in origine era un manifesto 11×17 stampato in inchiostro marrone su un’orribile carta verde!
Eravamo in contatto con radicali di altre zone, sulla Costa Orientale (in particolare i nostri colleghi di Midnight Notes e, prima, di Root and Branch), in Francia (Exchange & Movement), Italia, Spagna e Germania. Le idee di Marxista Autonomo erano una delle tendenze che ci influenzavano, insieme a varie tradizioni anarchiche, i Situazionisti, e persino i comunisti del comitato della rivoluzione tedesca successiva alla Prima Guerra Mondiale. In qualche modo Processed World è saltata fuori in un momento e in luogo inaspettati, all’alba dell’Era dell’Informazione, non lontano dalla Silicon Valley, per descrivere come in realtà probabilmente sarebbero andate le cose nello sviluppo dell’economia precaria post fordista, prima che i più neppure sapessero cosa stava per accadere. Le nostre basi teoriche e politiche ci aiutarono a darle un senso, e il nostro impegno per l’uso di un linguaggio semplice e l’esperienza vissuta furono di aiuto a trasmettere qualcosa delle nostre più ampie sensibilità al di là dei nostri circoli più vicini.
Fare del lavoro il centro della vita
Ma fummo isolati, ancor di più quando l’era reaganiana mise allo scoperto la Vecchia e la Nuova Sinistra, entrambe succubi dei loro stessi limiti storici e gradualmente disintegrate. Negli anni 90 e con la caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avevano già passato più di un decennio a sviluppare l’agenda neoliberale della finanziarizzazione rampante e della de-industrializzazione dell’economia, facendo a pezzi le reti della sicurezza sociale e, in generale, tentando di ristabilire la concentrazione radicale della ricchezza e del potere che caratterizzò la prima fase industriale del XIX secolo. Parte di quello sforzo fu una rinnovatacampagna ideologica per fare del lavoro il centro della vita, la strada attraverso cui si poteva accedere al credito, all’assicurazione, e alla sempre crescente proliferazione dei beni di consumo. Sebbene le entrate reali fossero rimaste stagnanti dal picco dei primi anni 70, la celebrazione perpetua del successo personale nei network di intrattenimento di massa in espansione, largamente aumentata dalla più grande piattaforma di autocompiacimento narcisistico nella storia, internet, resero il dissenso e il malcontento questioni psicologiche personali da affrontare al meglio acquistando più cose, o, al peggio, entrando in terapia. Nel corso di questo lungo inverno di debito, guerra, devastazione ambientale e cleptocrazia, la resistenza ha assunto diverse forme, ma raramente ha riguardato il lavoro. Forse il nodo sta venendo al pettine ora. Ultimamente è apparso un inatteso turbinio di buoni scritti sul lavoro. Un paio di mesi fa ho visto che il Jacobin Magazine, una nuova pubblicazione alquanto vivace di American left, che si identifica come pubblicazione socialista, ha pubblicato nel suo tredicesimo numero un pezzo che ha goduto brevemente di una vita virale. E’ intitolato In the Name of Love, di Miya Tokumitsu, e va dritto alla ridicola ideologia dei sostenitori della tecnologia, promotori del non profit e di altri secondo i quali il dovere di ciascuno nella propria vita è fare ciò che ama, e, se lo farà, in qualche modo guadagnerà un bel po’ di soldi e godrà anche di un appagamento creativo e sociale. Che sciocchezza!
Ho sempre ritenuto che chiunque possa vedere attraverso quella visione rosea e ideologicamente strumentalizzata del lavoro moderno, ma, a dir la verità, la sento in continuazione. Fa’ ciò che ami! è la formula magica che suscita pensierosi cenni del capo e dei caspita! di automatica approvazione tra persone con grande disparità di entrate e status. Ma è un’ideologia che fa anche del male. Dice Tokumitsu:
Non ci sono molti dubbi sul fatto che fa’ ciò che ami (do what you love DWYL) sia il mantra non ufficiale dei nostri tempi. Il problema è che non porta alla salvezza, bensì alla svalutazione del lavoro reale, compreso il lavoro che finge di elevare e, ancora più importante, alla disumanizzazione della vasta maggioranza dei lavoratori.A livello superficiale, il DWYL è un consiglio che dà sollievo, che spinge a soppesare cosa sia ciò che ci piace fare di più e poi a trasformare quell’attività in un’impresa che generi un guadagno. Ma perché il nostro piacere dovrebbe essere pagato? Qual è il pubblico a cui si rivolge questo detto? Quale non lo è?Tenendoci concentrati su noi stessi e sulla nostra felicità individuale, il DWYL ci distrae dalle condizioni di lavoro degli altri, mentre conferma le nostre scelte e ci solleva dai nostri obblighi verso tutti coloro che lavorano, sia che amino il loro lavoro, sia che non lo amino. E la stretta di mano segreta dei privilegiati e una visione del mondo che maschera il suo elitarismo da nobile auto-miglioramento. Secondo questo modo di pensare, il lavoro non è qualcosa che si fa per un compenso, bensì un atto di amore verso se stessi. Se non ne consegue un profitto, è perché la passione e la determinazione sono state insufficienti. Il suo vero obiettivo è far credere ai lavoratori che il loro lavoro sia al servizio del loro sé e non del mercato.Se crediamo che lavorare come imprenditore nella Silicon Valley o come pubblicista in un museo, o come accolito di un think tank sia essenziale per essere onesti con noi stessi, di fatto, per amare noi stessi, cosa crediamo delle vite interiori e delle speranze di quelli che puliscono le stanze d’albergo e immagazzinano scaffali in grandi centri commerciali? La risposta è: niente. Eppure il lavoro pesante e a basso livello di remunerazione è quello che sempre più americani fanno e faranno. Secondo le proiezioni fino al 2020 del Bureau of Labor Statistics statunitense, le due occupazioni che crescono più rapidamente sono l’Assistenza alle persone e la collaborazione domestica, con salari medi rispettivamente di 19,640 e 20.560 dollari l’anno nel 2010. Elevare certi tipi di professione a qualcosa degno di essere amato, significa necessariamente denigrare il lavoro di quelli che fanno professioni prive di glamour che garantiscono che la società continui a funzionare, soprattutto il lavoro cruciale di assistenza. Invece di costruire un paese di lavoratori appagati e felici, la nostra epoca DWYL ha assistito all’aumento di professori aggiunti e interni non pagati, gente persuasa a lavorare per poco o niente o, addirittura, in cambio di una perdita netta nel suo benessere.
Costringere al lavoro gratuito
Prosegue aggredendo l’ideologia DWYL come elemento chiave nel costringere al lavoro gratuito soprattutto le donne che fanno la parte del leone nell’ambito dell’assistenza, inclusa la maggioranza assoluta di professori aggiunti e interni non pagati, e si trovano sconfitte rispetto agli sforzi dei decenni passati riducendo tutti i benefici materiali guadagnati dal femminismo. Abbiamo tutti vissuto sulla nostra pelle l’emergenza di una economia della cultura fondata sul presupposto che dai produttori di cultura, siano essi musicisti, scrittori o performer, ci si aspetta che creino le loro opere gratuitamente. In questa assurda economia dell’attenzione, il compenso è il riconoscimento e la speranza che se si accumulino abbastanza riconoscimenti, un giorno potrebbero venire offerti soldi veri per scrivere o cantare o recitare.
L’intero numero di Jacobin è grande, mi ricorda molto Processed World. Apre con un articolo su C&S Wholesale Grocers, una vasta operazione a Keene, nel New Hampshire, scritto da una persona che prima faceva il rappresentante alle vendite. Abbiamo pubblicato dozzine di pezzi come questo sotto la categoria Tales of Toil, ed è un grosso contributo a questo genere di articoli. L’articolo centrale da cui il numero prende il nome, Alive in the Sunshine (Vivi alla luce del sole) di Alyssa Battistoni, sostiene l’idea diun’entrata base annuale garantita come misura per sciogliere il nodo che lega il lavoro alla crescita infinita, al consumo in continua espansione e alla conseguente devastazione ecologica(su questi temi, nell’archivio di Comune è consultabile la tag reddito, ndr). Alyssa Battistoni offre un utile pezzo di storia per ricordarci che la ripetitività della crescita continua non è sempre stata la sola maniera di pensare al benessere economico.
La mitologia che circonda il New Deal spesso trascura il fatto che la risposta del lavoro alla Depressione non era di lavorare di più, ma di condividere il lavoro già esistente in modo più ampio, passando a una settimana lavorativa di trenta ore; notoriamente, lo stesso Keynes predisse che entro la fine del secolo avremmo ridotto la settimana lavorativa a quindici ore. La decisione di usare la politica fiscale per stimolare i consumi, invece, era un mezzo per evitare cambiamenti strutturali più profondi, di far crescere la torta piuttosto che chiedere chi ne stava mangiando di più. Da allora, invece di aumentare il tempo libero, gli utili della produttività hanno largamente aumentato il consumo privato per un numero sempre più piccolo di persone. In questi tempi, naturalmente, il tempo libero è una costrizione imposta sono i datori di lavoro che stanno tagliando gli orari e i lavoratori che ne chiedono disperatamente di più. E chiaro che possiamo soddisfare le necessità con molto meno lavoro di quello che sostiene una popolazione che dipende da salari stagnanti. Mentre gli economisti classici ponevano il tradeoff tra consumo e tempo libero come una scelta compiuta dagli individui, il fatto che le persone lavorino o non lavorino è palesemente determinato da decisioni prese a livello sociale. Si comincia ad avere l’impressione che avremmo dovuto scegliere l’altro New Deal. Abbiamo bisogno di virare verso il lavorare meno per orientare il trade-off consumo-tempo libero verso il secondo a livello sociale e condividere più equamente il lavoro che resta . Trovare modalità per vivere agiatamente ma anche con leggerezza, adeguatamente ma non asceticamente non sarà sempre facile. Ma, forse, nella società della post-post scarsezza, da qualche parte, tra paure di una povertà generalizzata e sogni di generalizzata decadenza, possiamo ottenere le cose che non siamo mai riusciti ad avere nel tempo della supposta abbondanza: abbastanza per ognuno e tempo per ciò che vogliamo.
Architetti del proprio sfruttamento
Abbiamo trattato tematiche analoghe in moltissimi articoli di Processed World. Ci ho pensato così a lungo da arrivare a sentirmi piuttosto isolato nel mio interesse sull’argomento. Chiamavamo Processed World la rivista con una brutta piega (fu Adam Cornford a coniare quel grande slogan), e si è rivelato molto più pertinente di quanto avessimo mai pensato all’epoca. La piega, l’atteggiamento sono diventati più importanti delle capacità nella maggior parte delle professioni. Ciò è in parte dovuto al fatto che molti lavori sono così facili che chiunque può imparare a svolgerli in un’ora o anche meno. Ma anche al fatto che l’atteggiamento è un indicatore di quanto si sia desiderosi di lavorare più ore di quelle per le quali si è pagati, di dedicare energie mentali e sociali agli obiettivi aziendali sia durante l’orario di lavoro, sia ben oltre. L’allegria falsa, l’entusiasmo di squadra, tutto quell’apparato coercitivo di controllo sociale era esattamente il nostro obiettivo e pare che sia di nuovo posto sotto scrutinio in questo numero di Jacobin, ma anche nel recente libro di Kathi Weeks The Problem With Work:
laddove sono le attitudini stesse ad essere produttive, una forte etica del lavoro garantisce il livello necessario di impegno della volontà e di investimento soggettivo. In particolare nel settore dei servizi e nelle professioni con componenti di efficacia o di comunicazione, l’atteggiamento e lo stato emotivo dell’individuo sono considerati competenze fondamentali, insieme all’empatia e alla socievolezza. In effetti, la distinzione stessa tra competenze e attitudini in un lavoratore diventa difficile da sostenere poiché, come nota Robin Leidner, la volontà e le capacità dei lavoratori di manipolare e progettare le loro attitudini nell’interesse dell’organizzazione sono centrali per la loro competenza professionale. Doug Henwood afferma: le verifiche dei datori di lavoro rivelano che i capi sono meno interessati all’energia dei loro dipendenti che al loro carattere con il quale intendono autodisciplina, entusiasmo e responsabilità. Come osserva Arlie Hochschild nel suo innovativo studio del settore dei servizi interattivi, far sembrare che si ama il proprio lavoro diventa parte del lavoro stesso, e provare ad amarlo veramente e ad apprezzare i clienti aiuta il lavoratore in questo sforzo. Davvero, ora più che mai, dai lavoratori ci si aspetta che siano gli architetti del loro miglior sfruttamento. (Henwood)
L’approccio di Kathi Weeks è in certa misura parallelo a quello degli articoli sul Jacobin. Viene da un punto di vista sociologico accademico e propende fortemente verso l’opera di Max Weber e C. Wright Mills. Ma è anche un’entusiasta del Marxismo autonomista e fa un buon lavoro nel mettere insieme questi approcci di solito discordanti per dare un feroce assalto all’etica del lavoro. E’ particolarmente innamorata delle femministe degli anni 70 che ruotavano intorno alla campagna Wages for Housework, e utilizza quello sforzo per spiegare il suo sostegno a certi tipi di richieste politiche, indipendentemente da quanto irrealistiche possano suonare (ne è un esempio notevole il salario base annuale).
Il dominio dell’immaginario
Oggi, che i regimi neoliberali e post-neoliberali richiedono che quasi tutti lavorino per un salario (non importa che non ci sia abbastanza lavoro), la produzione post-industriale impiega le menti e i cuori dei lavoratori, oltre alle loro mani, e i processi lavorativi post-tayloristi richiedono in misura crescente l’autogestione della soggettività in modo che le attitudini e gli orientamenti affettivi al lavoro producano essi stessi valore, il discorso etico predominante sul lavoro può essere più indispensabile di quanto non lo sia mai stato, e il rifiuto delle sue prescrizioni anche più puntuale. L’analisi cerca di dare conto non solo della longevità e del potere dell’etica, ma di indicare anche i suoi punti di instabilità e vulnerabilità . Mi interessano le richieste che, oltre alle riforme concrete del lavoro, sollevano questioni più ampie sul posto del lavoro nelle nostre vite e suscitano l’immaginazione di una vita non più subordinata ad esso richieste che fungono da vettori piuttosto che da punti di arrivo . Se il motivo per cui lavoriamo, il luogo dove lavoriamo, le persone con cui lavoriamo, cosa facciamo al lavoro e quanto lavoriamo sono accordi sociali da cui derivano decisioni politiche appropriate, come potrebbe una porzione più vasta di questo terreno essere reclamata come praticabile per il dibattito e la lotta? Il problema del lavoro non è solo che monopolizza così tanto tempo ed energie, bensì che domina anche gli immaginari politici e sociali.
L’etica del lavoro è molto antecedente alla recente espressione menzionata, fa’ ciò che ami, ma in pochi mettono in discussione la sua centralità. Che si tratti della lotta individuale per la sopravvivenza alla ricerca di un lavoro, della dignità e dell’autostima nel lavoro remunerato, o di un’insistenza accondiscendente dei proprietari di società affinché tutti debbano lavorare per elevarsi, per guadagnare la loro strada con il sudore della fronte, e tutto l’assortimento di slogan ridicoli che promuovono la sottomissione planetaria al lavoro,siamo circondati da un coro senza fine a favore del lavoro.
L’etica protestante
La Weeks offre anche una buona analisi su come l’etica del lavoro sia cambiata nell’ultima parte del XX secolo, assumendo la forma del ritornello fa’ ciò che ami dei promotori della tecnologia e del non profit.
Dopo la metà del XX secolo, è sopraggiunto sul fronte della nuova etica post-industriale un altro elemento, presente ma non così accentuato nel discordo industriale un elemento che ha caratterizzato il lavoro come percorso verso l’auto-espressione dell’individuo, il suo auto-sviluppo e la sua creatività . In effetti, la storia dell’etica del lavoro negli Stati Uniti dimostra l’adattabilità di tale ideale ascetico, dato che attraversa il tempo e viaggia nello spazio. Come si è rivelato, i mezzi per raggiungere fini diversi cioè i comportamenti che l’etica prescrive restano coerenti: l’identificazione e la sistematica dedizione al lavoro salariato, l’elevazione del lavoro a centro della vita e l’affermazione del lavoro come fine in sé quando non si ha memoria o si ha poca immaginazione per un’alternativa a una vita incentrata sul lavoro, ci sono pochi stimoli per riflettere su perché lavoriamo nel modo in cui lo facciamo e cosa potremmo invece desiderare. Piuttosto che nel rafforzare il conformismo, l’etica protestante è efficace nella misura in cui viene interiorizzata dall’individuo. Inoltre, l’effetto non è solo di plasmare le credenze e i valori dell’individuo, bensì di promuovere la costituzione dell’individuo in relazione e identificazione con le norme della produzione. L’etica è un consiglio non solo su come comportarsi, ma anche su chi essere .
Chi essere, davvero? Solamente un lavoratore? Certamente abbiamo cose migliori da fare che semplicemente lavorare! Ho scritto Nowtopia sei anni fa (in Italia edito da Shake, con il titolo NowUtopia, ndr) e ho da poco goduto di un rinnovato interesse da parte degli amici in Brasile, dove è stato distribuito in portoghese. Nel libro identifico una nuova politica del lavoro, fondata su come molti di noi abbiano vite biforcate. Facciamo qualcosa per i soldi. Può essere qualcosa che amiamo fare oppure no, e anche se ci piace la maggior parte di ciò che realmente facciamo al lavoro non è la parte che amavamo quando abbiamo iniziato. Così, la risposta più comune in questi tempi è una sorta di esodo, o, come l’ho descritto altrove, di diserzione assertiva dalla ruota di un lavoro senza fine, apparentemente privo di scopo. Per una crescente minoranza di persone, quando non siamo al lavoro a fare soldi, stiamo lavorando duramente su progetti che abbiamo scelto. In queste attività non siamo semplici lavoratori proprio perché controlliamo completamente le nostre attività come agenti pienamente umani, possiamo creare, dare forma e innovare a nostro piacimento. In altre parole, sfuggiamo alla dicotomia imposta dal lavoro retribuito quando lavoriamo gratuitamente, quando facciamo ciò che ci piace perché ci piace, non perché paga i nostri conti.
Il rifiuto del lavoro
La Weeks indica un processo analogo quando replica al fondamentale The Right to Be Lazy di Paul LaFargue (Il diritto alla pigrizia, Asterios ndr):
Il rifiuto del lavoro non è infatti il rifiuto di un’attività e della creatività in generale o della produzione in particolare. Non è una rinuncia al lavoro tout court, piuttosto il rifiuto di un’ideologia del lavoro come più alta vocazione e dovere morale, il rifiuto del lavoro come il centro necessario della vita sociale mezzo di accesso ai diritti e alle rivendicazioni della cittadinanza, e il rifiuto della necessità del controllo capitalistico della produzione. Infine, è il rifiuto dell’ascetismo di coloro, perfino quelli di sinistra, che privilegiano il lavoro su tutte le altre attività, compresa la libertà del consumismo . Ma il rifiuto del lavoro, sia come attivismo sia come analisi, non si limita a porsi contro l’attuale organizzazione del lavoro; dovrebbe essere inteso anche come una pratica creativa, che cerca di riappropriarsi e riconfigurare le forme esistenti di produzione e riproduzione. In questo senso, il rifiuto come l’esodo o l’uscita è un ritiro impegnato (o una presa di commiato fondante), una pratica creativa opposta alla semplice posizione difensiva. Il passaggio dal momento negativo del rifiuto al momento costruttivo dell’uscita e dell’invenzione segna il cambiamento da un gesto di reazione o di ritirata a un’affermazione attiva dell’innovazione sociale.
Ma, come ho argomentato in Nowtopia, osservando esempi molto diversi come i negozi di riparazione di biciclette fai da te, gli orti comunitari, i progetti di software libero indipendente, il mercato è vorace. Quasi tutto ciò che facciamo come fuga viene presto riciclato nella logica della piccola impresa, degli affitti, dei conti e degli stipendi da pagare. Più a lungo resiste un progetto basato sulla libera cooperazione e al di fuori del denaro in un mondo di relazioni di mercato, più implacabile è la pressione di capitolare e diventare un’organizzazione non profit, una piccola impresa o di chiudere la baracca semplicemente per l’insostenibilità di un’isola di anticapitalismo in un mare di relazioni capitalistiche.
Lavoro non alienato?
La Weeks rivolge la sua critica più agli umanizzatori del lavoro, quelli che cercano di riaffermare e riorganizzare il lavoro nell’economia capitalista per recuperare dall’alienazione l’esperienza autentica del lavoro:
L’affermazione del lavoro non alienato non è una strategia adeguata con cui contestare le modalità capitalistiche di controllo contemporanee, viene troppo rapidamente cooptata in un contesto in cui le metafisiche del lavoro e la sua moralizzazione conducono a una enorme autorità culturale in tanti ambiti. Ciò non per suggerire che dovremmo abbandonare le lotte per un lavoro migliore, per la liberazione da compiti privi di contenuto mentale e ripetitivi, ambienti pericolosi, isolamento che istupidisce e gerarchie meschine. E’ importante comunque riconoscere che il linguaggio e, in certa misura, le pratiche dell’umanizzazione del lavoro sono state cooptate.
Sia Weeks che Battistoni abbracciano l’idea di un’entrata base annuale per tutti, indipendentemente dalla condizione in cui si trovano, come passo nella direzione di una rottura dell’assoluta egemonia del lavoro sulla vita. Ho ascoltato questo canto delle sirene per decenni e non direi di no a uno sviluppo di questo tipo, tuttavia ho davvero difficoltà ad accettare a scatola chiusa le cosiddette riforme radicali, come questa. L’economia capitalista sta già soffrendo una crisi di redditività profonda e persistente (aggregando i dati su scala mondiale). L’impossibilità di tirare fuori grossi aumenti di salari sociali (anche solo in uno stato-nazione, che è palesemente inadeguato in un’economia globalizzata) da un sistema in crisi sembra auto-evidente, e mette in evidenza la necessità di rompere del tutto con quella logica. Ma la maggior parte delle persone non sono aperte a questo tipo di confronto, sperano che possiamo in qualche modo compiere piccoli passi verso un mondo più umano, più sano, meno barbaro. Alcuni tra coloro che propongono riforme radicali sanno perfettamente che le loro richieste non possono essere soddisfatte in un sistema capitalista, ma sentono che metterle sul tavolo aiuterà a svegliare la consapevolezza delle evidenti inadeguatezze di questa organizzazione della vita. Di nuovo, non sono contrario, semplicemente non ci credo.
Collettività orizzontali autogestite
Cosa propongo invece? Una trasformazione a livello mondiale della vita quotidiana basata su collettività orizzontali autogestite nei luoghi di lavoro, nel vicinato, nelle scuole, città, regioni, etc., confederate alla base in reti di comunità a democrazia diretta. Qualsiasi cosa questo significhi. Come interagirebbero i processi decisionali locali con quelli regionali, nazionali, continentali e globali? Esistono meccanismi di costrizione per una maggioranza globale su aree recalcitranti che, per esempio, rifiutano di smettere di bruciare il carbone, o di gestire bene le loro riserve di acqua potabile? Come diavolo faccio a saperlo? La rivoluzione è molto complicata e non possiamo più sventolare la bandiera rossa, o quella nera, e avere un ampio consenso o perfino una visione vagamente condivisa di ciò per cui stiamo combattendo.
Ma sono sicuro che non andremo mai da nessuna parte se non facciamo del lavoro una preoccupazione centrale dei nostri pensieri e della nostra azione. Quindi sono veramente felice di vedere altre pubblicazioni e libri in cui queste idee cominciano ad avere più attenzione e aderenza. Dopo i miei giorni in Brasile, la scorsa settimana, penso che forse ho contribuito a promuovere il dibattito anche lì, e sembra molto probabile che verranno fuori altre brecce in luoghi a cui non stiamo affatto guardando. Le sollevazioni che continuano a esplodere nel mondo sono tutte parte di una rivoluzione globale che sta fiorendo. Il suo risultato è inconoscibile. Ma è possibile e sicuramente desiderabile che troveremo la strada per una vita radicalmente migliore di quella del mondo in cui viviamo ora. Una questione chiave sarà come compierla con i nostri sforzi condivisi e il nostro lavoro collettivo. Il fatto che ne stiamo di nuovo parlando è molto promettente.
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* Chris Carlsson, scrittore e artista (foto) da sempre nei movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco. Autore, tra le altre cose, di «Nowutopia» (Shake edizioni) e, più recentemente, di «Critical mass. Noi siamo il traffico» (Memori), invia periodicamente i suoi articoli, molti dei quali raccolti sunowtopians.com, a Comune-info: il saggio qui pubblicato (titolo originale Public Secrets and Private Agony: Talking About Work!) è stato tradotto per Comune da Elisabetta Mincato.
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