Non si esce vivi dagli anni ’80
A fine luglio in molti hanno alzato più di un sopracciglio, quando Giusi La Ganga è entrato in consiglio comunale, da ventitreesimo classificato nelle liste del PD, sfruttando la nomina ad assessore del capogruppo Lo Russo, che ha così lasciato libero un posto in Sala Rossa. A me, il sopracciglio l’ha fatto alzare l’intervento in aula del Partito Democratico (potete leggere il verbale di tutta la discussione, sicuramente interessante), in cui il capogruppo ad interim Paolino ha parlato di pacificazione, di riconciliazione, di guardare avanti, e persino di rappresentare la tradizione socialista (non oso immaginare quale).
Per questo ho preso la parola e, su due piedi, ho detto le cose che sentite nel video: in particolare, che non può esserci pacificazione con la classe politica di Tangentopoli, e che chi ha una condanna del genere in giudicato, pur avendo saldato il conto con la giustizia, non dovrebbe più avere la possibilità di amministrare la cosa pubblica, e le forze politiche non lo dovrebbero candidare (come già fa il M5S).
Allo stesso tempo, la vera riflessione che vorrei suggerire è che forse La Ganga è una falsa pista rispetto alla sostanza, e cioé al fatto che la politica italiana non è mai veramente uscita dagli anni ’80. Ci hanno detto per vent’anni che la seconda repubblica era tutt’altra cosa rispetto alla prima; che nella prima c’erano le ideologie, c’era la DC sempre al governo e il PCI sempre all’opposizione, e invece nella seconda finalmente c’era il bipolarismo, l’alternanza al governo. Questa, però, è la superficie; la realtà è che i comportamenti della politica, i modi con cui essa si approccia alla gestione quotidiana della cosa pubblica, non sono mai cambiati.
Nella realtà, la politica di oggi ha mantenuto la stessa concezione del bene comune e dello Stato, come feudo e come mucca da mungere e su cui scaricare i costi del consenso, di trent’anni fa; l’ha solo svuotata delle scuse ideologiche e ricoperta invece di “tette e culi”, di lustrini del Drive In e di tecniche pubblicitarie e manipolatorie importate dagli Stati Uniti, con convinzione e attitudine se parliamo di Berlusconi, e con la frustrazione del ragazzino sfigato che fa lo snob ma sotto sotto invidia l’arroganza e il successo dell’altro se parliamo della dirigenza del centrosinistra.
Il problema è che il mondo è cambiato, e se gli anni ’80 erano periodo di vacche grasse, oggi la nostra incapacità di arrivare a una gestione onesta e moderna della cosa pubblica ci è letale. Eppure siamo sempre lì: mentre si tagliano il welfare e i servizi, si mandano avanti enormi progetti infrastrutturali spesso superflui o mal pensati, ma che permettono un grande giro di denari pubblici tra aziende amiche. Mentre si rischia di non avere i soldi per pagare gli stipendi, si assumono decine di migliaia di precari nella pubblica amministrazione; e son ben contento per chi legittimamente aspettava da anni una sistemazione e ora festeggia come fosse un miracolo (e poi ovviamente voterà i partiti che gli hanno dato il posto di lavoro), ma dove si è mai vista un’azienda sull’orlo del fallimento che assume ottantamila persone, e che fine fa un’azienda che affronta così la crisi?
E’ proprio l’idea di Stato che abbiamo noi che è sbagliata; uno Stato che nella nostra testa dovrebbe dare tutto senza chiedere niente, anche se nei fatti poi, esattamente all’opposto, ci offre una pressione fiscale esagerata in cambio di servizi scadenti. Sarebbe allora meglio puntare su uno Stato che mantenga strettamente nelle proprie mani la proprietà dei beni comuni e la gestione dei servizi fondamentali, ma che poi chieda il meno possibile e faccia il meno possibile, evitando di accumulare nelle mani della politica una parte preponderante dell’economia, della società e del denaro dell’Italia, il che, in Italia, sta alla base del suo potere di corrompere e di corrompersi.
Nessun politico, però, potrà mai fare questo; perché in termini elettorali sarebbe un suicidio, la medicina cattiva che alla lunga ti salva, ma nel breve fa veramente schifo. Per questo io spero che lo faccia il Movimento 5 Stelle, che è sempre partito dal principio di essere una medicina sgradevole e temporanea, senza avere alcuna aspirazione a restare al potere all’infinito (il giorno della fondazione, nell’ottobre 2009, Grillo disse “avremo avuto successo se ci saremo sciolti entro cinque anni”). Temo, però, che l’unica cosa che potrà (forse) cambiare l’idea e la pratica del rapporto tra gli italiani e la cosa pubblica è il fallimento, l’azzeramento forzato per disastro annunciato da lustri e nonostante ciò mai evitato; è che il nostro Stato riesca infine ad uscire dagli anni ’80, nell’unico modo in cui ne può uscire: morto.
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