Una proposta per l’agricoltura di piccola scala
Ottenere che venga riconosciuta anche la dimensione locale e di piccola scala dell’agricoltura e approvare una normativa adeguata a questa realtà. È questo l’obiettivo della Campagna per l’Agricoltura Contadina, lanciata nel 2009 e portata avanti da diverse sigle del mondo contadino italiano.
di Francesco Bevilacqua
La Campagna per l’Agricoltura Contadina è stata lanciata nel 2009 e portata avanti da diverse sigle del mondo contadino italiano
Il VI Censimento Generale dell’Agricoltura, pubblicato lo scorso anno dall’Istat, ha confermato una tendenza molto marcata del mondo rurale italiano: nel decennio 2000-2010 è diminuito il numero complessivo delle aziende agricole (-32,2%) ma è sensibilmente aumentata la loro dimensione media (+44,4%). Questo significa che le piccole realtà agricole del nostro territorio stanno progressivamente scomparendo. È proprio per contrastare questo pericoloso processo che è nata nel 2009 l’iniziativa “Campagna per l’Agricoltura Contadina”, volta a valorizzare e tutelare l’agricoltura di piccola scala basta sul lavoro contadino e familiare.
A quasi quattro anni dal suo lancio, abbiamo sentito Roberto Schellino, uno dei coordinatori della Campagna, per analizzarne nel dettaglio le richieste e fare il punto della situazione attuale.
Puoi descriverci gli obiettivi di fondo che hanno dato origine al progetto?
Questa iniziativa ha due scopi principali, entrambi di carattere normativo. Il primo è il riconoscimento legale dell’agricoltura contadina come modello agricolo in sé; il secondo, la realizzazione di un corpo parallelo di norme applicative a favore dell’agricoltura di piccola scala. A livello strutturale infatti, l’agricoltura contadina non si concilia con le grandi dimensioni, ma è propria delle realtà agricole piccole e medie, che però attualmente non vengono riconosciute né tanto meno differenziate, dal punto di vista tecnico-giuridico, dalle aziende dell’agro-industria.
Per capire come è nata la campagna bisogna avere un’idea del contesto. Oggi tutte le qualifiche relative al mondo agricolo contemplano l’esistenza di una sola agricoltura, alla quale bisogna applicare delle regole di sostegno o di governo. Quindi tutte le realtà agricole vengono inserite in questa visione che potremmo definire monolitica. Al contrario, le nostre rivendicazioni si basano su un’analisi che evidenzia la coesistenza di una pluralità di agricolture. Questo fra l’altro è una prerogativa della realtà italiana, ancor più che degli altri paesi europei, dovuta a storia e condizioni naturali particolari.
Per noi 'pluralità' significa che vi sono diversi territori all’interno dei quali esistono diverse esperienze. Le agricolture di pianura si differenziano molto da quelle delle terre alte – colline e montagne – proprio perché, a seconda dei territori, si sono sedimentate pratiche agronomiche diverse. E sono dissimili anche per la loro struttura economico-sociale: in pianura le dimensioni aziendali sono molto grandi mentre in montagna prevalgono le micro-aziende.
La premessa è quindi questa: coesistendo storicamente, socialmente e agronomicamente strutture agricole molto diverse fra di loro, è necessario avere norme adeguate per affrontare questa pluralità. Oggi, al contrario, la logica dominante è quella di forzare tutte le aziende all’interno di un’unica concezione, che è quella dell’impresa che compete sul mercato globale. Questo vuol dire stilare e applicare delle norme uguali per tutti, nonostante le piccole agricolture non siano adatte a quel tipo di regime, di conduzione e di normativa e necessitino di regolamenti ad hoc.
"le aziende si sono concentrate, sono diventate più grandi, quelle più piccole e meno efficienti sono state eliminate"
Come si rapportano attualmente le grandi aziende agricole italiane con quelle di piccola scala?
Coloro che ragionano esclusivamente in termini di mercato globale hanno accolto con favore i dati forniti dal censimento decennale, interpretando così questa tendenza: le aziende si sono concentrate, sono diventate più grandi, quelle più piccole e meno efficienti sono state eliminate e quindi quelle sopravvissute hanno maggiori capacità di resistenza sul mercato. La nostra visione è diametralmente opposta: per noi questo è un segno della regressione dell’agricoltura, dovuto alla scorretta equiparazione di realtà agricole completamente diverse fra loro.
A conferma di ciò, emerge che la maggior parte delle aziende scomparse operava nelle zone più difficili, ovvero collina e montagna. Questo vuole dire spopolamento, abbandono del territorio, depauperamento del terreno e così via. Noi crediamo che la perdita delle piccole aziende porti una serie di conseguenze negative, non solo per il venir meno del ruolo di custodi del territorio che svolgono i piccoli agricoltori, ma anche dal punto di vista della distribuzione degli insediamenti e della produzione.
Gli stessi dati possono essere letti in modo diverso a seconda dell’approccio che si ha. Per noi che sosteniamo la pluralità dell’agricoltura, la campagna non sta attaccando l’agro-industria, ma sta semplicemente chiedendo che venga riconosciuta la piccola agricoltura del territorio, che in questo momento non può che coesistere con l’industria, perché nessuno è in grado di cambiare completamente il sistema. Però chiediamo che alla piccola agricoltura venga quantomeno lasciato lo spazio che le spetta. In questo caso la lotta si svolge sul piano normativo, ma si collega al tema dell’agricoltura contadina per molti altri aspetti.
Dunque non si tratta di una rivendicazione volta a ottenere un “trattamento privilegiato”?
Assolutamente no. Ho tracciato questo quadro di riferimento proprio per far capire il perché chiediamo che vengano emanate determinate normative e soprattutto per sottolineare che il nostro non è un approccio che si rifà a una logica 'corporativa', di un comparto che vuole ottenere dei vantaggi per uno stretto interesse di categoria. La nostra campagna vive solo di sé stessa, non ha supporto istituzionale né finanziamenti pubblici di alcun genere ed è completamente autogestita dalle associazioni che la sostengono. Molte sono piccole realtà, quindi il nostro limite principale in questo momento sono le risorse economiche: ne abbiamo pochissime e non possiamo permetterci un’ampia visibilità mediatica. Piuttosto, un po’ per necessità un po’ per scelta, stiamo cercando di lavorare molto alla base, poiché crediamo che più del lavoro di immagine conti quello di sostanza. Inoltre, nel contesto della miriade di associazioni che ruotano intorno a questi temi, è ancora difficile costruire un’unità d’intenti pratica e purtroppo questo è un problema piuttosto serio.
"È da gennaio dell’anno scorso che chiediamo un incontro al Ministro dell’Agricoltura Catania, ma non abbiamo ancora ottenuto risposta"
Come sono i rapporti con il mondo politico e istituzionale?
È da gennaio dell’anno scorso che chiediamo un incontro al Ministro dell’Agricoltura Catania, ma non abbiamo ancora ottenuto risposta. Probabilmente questo avviene perché il personale del ministero è composto da tecnici e anche all’agricoltura è applicata questa chiave di lettura tecnocratica e liberista, che rende difficile persino intavolare una discussione sulla pluralità delle agricolture. L’unica risposta che, in passato, abbiamo ricevuto, è giunta all’inizio della campagna, quando era ministro Zaia, con un incontro con il suo capo di gabinetto. Cambiata la situazione politica, tutti gli altri che lo hanno seguito non ci hanno più risposto.
Diversa la situazione per quanto riguarda il dialogo con gli enti locali. Ora siamo in una fase in cui, per scelta nostra, stiamo cercando di lavorare sui piani regionali. Questo perché una parte delle normative su cui vorremmo intervenire è di competenza delle Regioni. Non essendo in grado di sostenere una battaglia campale su tutti gli aspetti della questione – dato anche l’attuale contesto politico e culturale –, abbiamo deciso di puntare su una serie di singoli temi da collegare poi in successione uno all’altro. Uno di quelli più urgenti e più importanti per le piccole aziende agricole è quello relativo ai vincoli igienico-sanitari sulle trasformazioni dei propri prodotti, appunto di competenza regionale. Il passaggio fondamentale è che non si chiedono né esenzioni né deroghe, quanto piuttosto la costruzione di norme adeguate alla piccola dimensione.
Questo vuol dire che la trasformazione dei prodotti deve avere normative proporzionate alla scala entro cui avviene: se è realizzata nell’ambito di una filiera lunga, in cui ci sono diversi soggetti che lavorano su grandi quantità, sono necessari determinati tipi di strutture che possano garantire la sicurezza dei passaggi complessi. Invece, quando nella piccola realtà tutte queste fasi sono svolte da un unico soggetto – cioè il piccolo agricoltore che coltiva il prodotto, lo trasforma nella sua struttura e lo vende direttamente, controllando tutto il ciclo e realizzando piccoli volumi –, in tal caso debbono esserci normative adeguate a questa dimensione.
La vostra richiesta trova delle analogie nella normativa esistente oggi?
Sì, in particolare a livello europeo. Nell’aprile di quest’anno si è svolta a Bruxelles una conferenza della Commissione Europea sulle filiere corte e le agricolture di piccola scala e uno dei tre gruppi di lavoro dell’incontro era relativo proprio alle normative igienico-sanitarie. Lì sono emersi due aspetti fondamentali: da un lato, che i testi della normativa europea inquadrano tutti gli stabilimenti produttivi – dalla Barilla al micro-agricoltore – allo stesso modo e quindi, nelle interpretazioni più restrittive, vengono richieste condizioni che per la piccola dimensione sono spesso inarrivabili.
Dall’altro lato, si è invece ribadito che la normativa comunitaria riporta chiaramente al suo interno il principio della flessibilità, che vuol dire che le norme devono essere applicate in maniera conforme alle situazioni che si presentano di volta in volta. Il problema è che in Italia la normativa europea che vincola tutti i paesi dell’Unione è stata applicata in modo restrittivo e questa flessibilità è sostanzialmente sparita. Tant’è che in quella commissione è stato riconosciuto e formalizzato che a livello comunitario, da paese a paese, esistono differenze sostanziali nell’applicazione delle disposizioni. Nella fattispecie, i paesi anglosassoni, in particolare l’Austria e in parte l’Inghilterra, hanno normative più aperte, mentre i paesi latini e mediterranei, come Italia, Spagna e Romania, hanno delle leggi molto rigide.
Nell’aprile di quest’anno si è svolta a Bruxelles una conferenza della Commissione Europea sulle filiere corte e le agricolture di piccola scala
Come ha reagito il mondo agricolo alle vostre proposte?
Noi abbiamo posto una questione di ordine politico, culturale e sociale. Ci ha stupito il comportamento delle stesse organizzazioni professionali agricole, che non hanno voluto affrontare la discussione, rifiutandosi di prenderla in carico. Pur avendoli cercati più volte, non siamo mai riusciti ad avere un contatto diretto. La loro posizione potrebbe essere dettata dalla volontà di ribadire l’unicità del mondo dell’agricoltura, all’interno del quale convivono piccoli produttori e imprese dell’agro-industria. Le grandi organizzazioni sindacali tendono ad assecondare gli interessi delle realtà più rappresentative; dal punto di vista numerico le microaziende sono molte, ma non hanno potere né peso economico negli organi decisionali e a livello istituzionale.
A volte notiamo anche dei veri e propri pregiudizi di contenuto, ci sono esponenti sindacali che semplicemente non conoscono il problema, non vivendo sul territorio. Le politiche a favore delle piccole aziende quindi sono spesso monche. Per esempio, si può organizzare i mercati contadini, ma se per accedervi bisogna essere in regola con le attuali normative igienico-sanitarie il problema si ripropone da capo.
Per concludere, puoi fare un punto sulla situazione attuale della Campagna per l’Agricoltura Contadina?
Adesso stiamo muovendo dei passi importanti sul piano regionale, anche se pure lì stiamo agendo a macchia di leopardo, perché in certe regioni ci sono più energie, forze e presenze, mentre in altre meno. Abbiamo avviato un percorso in Piemonte, dove il tema della campagna contadina è stato fatto proprio da un coordinamento, di cui faccio parte anch’io, che si è formato da circa un anno e mezzo con il nome di Coordinamento Contadino Piemontese e che comprende sette associazioni regionali che sostengono l’iniziativa. Stiamo lavorando a livello regionale sui temi normativi, iniziativa locale nell’ambito della campagna nazionale.
Adesso siamo in una fase in cui, dopo un lavoro di diversi mesi portato avanti insieme ad alcuni consiglieri regionali, abbiamo scritto un testo di normativa regionale che è stato depositato presso il Consiglio Regionale del Piemonte, in attesa di essere discusso nei prossimi mesi, e che contiene le norme semplificate che abbiamo redatto con un lavoro alla pari fra i consiglieri e il coordinamento, ispirandoci alle leggi più avanzate in materia. Infatti, ci sono due zone del territorio italiano che hanno già una normativa semplificata. Una è la Regione Abruzzo, che ha una previsione di semplificazione per le piccole aziende e i produttori locali, e l’altra è la Provincia Autonoma di Bolzano, che si ispira alle normative austriache, molto avanzate nell’applicazione della flessibilità.
"Noi crediamo che la perdita delle piccole aziende porti una serie di conseguenze negative"
Non è un caso che sia l’Abruzzo che la provincia di Bolzano siano regioni montagnose o alto-collinari, dov’è dominante un certo tipo di aziende. Al contrario, in regioni come Veneto, Lombardia, Lazio e altri grandi territori pianeggianti, hanno più forza le macro-aziende, che fanno la parte del leone nella determinazione delle politiche locali; lì, il discorso di semplificazione è più difficile. Adesso in Piemonte siamo nella fase di elaborazione: dovremo sostenere la discussione del progetto di legge già depositato e vedere come va a finire. Questo percorso è già stato preso come traccia anche in altre regioni, come l’Emilia Romagna, la Lombardia e la Liguria, dove si prevede di realizzare qualcosa di simile.
Stiamo cercando di lavorare molto sottotraccia, un po’ per le risorse che abbiamo a disposizione un po’ per scelta, perché questo è un modo per operare sul territorio e riconoscersi come attori locali, anche perché le stesse richieste che avanziamo devono essere interpretate nelle zone specifiche: i contadini piemontesi hanno esigenze diverse rispetto a quelli siciliani. Per quanto riguarda le tempistiche, ci hanno detto che in Piemonte la discussione dovrebbe essere avviata nei primi mesi del 2013 in seno alla Commissione Agricoltura.
Sarà una specie di test, perché quando le Commissioni analizzeranno la proposta di legge apriranno delle consultazioni, alle quali parteciperanno anche le organizzazioni professionali agricole; in quell’occasione sarà interessante sentire ufficialmente cosa diranno. Abbiamo anche trovato il modo per intraprendere autonomamente una strada per compiere la quale non dobbiamo sottostare gerarchicamente a nessuno, chiamando però tutti al confronto.
Certamente abbiamo ben presente che questo percorso non è una corsa di velocità ma una maratona, bisogna essere attrezzati per le lunghe distanze, non pensare di arrivare subito alla soluzione del problema ma essere ricettivi, rimanere sempre attivi e sostanziare la campagna nel tempo e con il contributo di tutti. Lungo il cammino la compagine si è arricchita e si sono unite nuove associazioni. Adesso siamo in venti, ha aderito anche il Movimento della Decrescita Felice. La difficoltà sta nel mantenere elevata l’attenzione di tutti sul tema e riuscire a portarlo avanti nel tempo, magari collegando a esso anche le nuove iniziative che nasceranno.
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