Un accordo internazionale sui biocarburanti

La fiducia nelle potenzialità dei biocarburanti non deve essere cieca di fronte alle conseguenze che anche combustibili meno inquinanti possono avere sull’ambiente e sull’equilibrio alimentare. Questa la convinzione dei 23 paesi, industrializzati ed emergenti, firmatari di un accordo per sottoporre a regole comuni il sostegno alle bioenergie.

di Angela Lamboglia

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23 Paesi hanno firmato un accordo per sottoporre a regole comuni il sostegno alle bioenergie
I paesi aderenti al Gbep (Global Bioenergy Partnership), hanno raggiunto un accordo sulla necessità di garantire che i biocarburanti abbiano un impatto positivo sull’ambiente e non generino problemi di disponibilità di materie prime, aggravando il problema alimentare, soprattutto nei paesi più poveri, per la sottrazione di terreni agricoli e l’impennata dei prezzi.
L’intesa consiste nell’adozione di una serie di indicatori, attraverso i quali ciascuno Stato potrà misurare la sostenibilità delle energie di origine vegetale. Alcuni biocombustibili richiedono infatti un grande impiego di fertilizzanti chimici e di acqua, come nel caso del granturco, mentre altri, come l’olio di palma, vengono prodotti a prezzo della distruzione di ettari di foreste.
Il problema è quindi come fare in modo che il vantaggio della riduzione di emissioni inquinanti rispetto all'uso di combustibili fossili non sia vanificato da un enorme sfruttamento di risorse. Non solo: alcune ricerche contestano la capacità dei biocarburanti di produrre un effettivo risparmio delle emissioni, se si considerano quelle generate nell'intero ciclo della loro produzione e distribuzione.
Recentemente, ad esempio, un rapporto della North Energy ha sostenuto che l'acquisizione di circa 50mila ettari di bosco e macchia in Kenya per costruire un impianto di biodiesel provocherebbe tra 2,5 e 6 volte più gas serra rispetto ai combustibili fossili.
I 24 criteri individuati nell’accordo comprendono quindi le emissioni di gas serra generate, tenendo conto anche della produzione e del trasporto, l’impatto sulla biodiversità, gli effetti sulla disponibilità e il prezzo dei beni alimentari, l'incremento della deforestazione, la sicurezza energetica.
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Come far sì che il vantaggio della riduzione di emissioni inquinanti rispetto all'uso di combustibili fossili non sia vanificato da un enorme sfruttamento di risorse?
Considerazioni che da tempo animano il dibattito anche all’interno della Commissione europea e che, se prese sul serio, potrebbero provare una brusca battuta d’arresto per le industrie della bio-energia più sviluppate, che sono tra l’altro quelle su cui più si appuntano le preoccupazioni per la sovrapposizione tra uso alimentare ed energetico e per lo sfruttamento di acqua e suolo: mais, frumento e olio di palma.
Al momento gli indicatori sono volontari e non si traducono in una forma di vincolo per gli Stati aderenti all'accordo, che comprendono tra gli altri Stati Uniti e Cina; tuttavia, la loro individuazione è il segnale di un approccio più attento alle soluzioni disponibili per contrastare il cambiamento climatico, perché prova a non limitarsi ad una secca alternativa tra sostenitori e detrattori, ma cerca di riconoscere quali sono le condizioni perché siano effettivamente praticabili. Una preoccupazione non più rimandabile dal momento che si stima che nell’arco dei prossimi 30 anni i biocarburanti potrebbero arrivare a coprire un quarto della fornitura di combustibile globale.
Altrettanto importante sarà comprendere le effettive potenzialità dei biocarburanti di seconda generazione, che possono essere ricavati, ad esempio, dalle alghe o dalla paglia. Recentemente nove partner provenienti da sette Paesi si sono uniti in un progetto innovativo in parte finanziato dall'Unione europea per dimostrare che etanolo, biodiesel e altre bioenergie possono essere prodotte dalle alghe su larga scala.
Come primo passo, le conclusioni dei membri del Gbep saranno presentate al summit del G8 in corso a Deauville, in Francia.

 

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