SENZA PADRONI

http://www.italianinsane.info/2014/senza-padroni/
La rigida separazione che esiste tra la vita di un individuo e quanto di essa egli è costretto a dedicare al suo lavoro è probabilmente la fonte più grave di problemi per la società contemporanea. Non ci si può aspettare dalla gente un atteggiamento responsabile e ricco di iniziativa nella vita quotidiana se della responsabilizzazione e dello spirito di iniziativa l’esperienza lavorativa rappresenta, in ogni suo aspetto, la negazione più completa. Vano è il tentativo di scindere la personalità di un uomo in compartintenti stagni, vano e pericoloso: chiunque venga determinato a dipendere da una figura autoritaria e paternalistica sul posto di lavoro, di essa sentirà la necessità anche fuori della fabbrica: la mancanza di occasioni di responsabilizzazione nello svolgimento delle sue mansioni lavorative, ne farà un irresponsabile anche nelle ore del suo tempo libero. La tendenza attuale verso una società centralizzata, paternalistica e autoritaria, non è che il riflesso di condizioni che già esistono all’interno della struttura produttiva. Gordon Rattray Taylor, Are Workers Human? Il romanziere Nigel Balchin fu invitato una volta a intervenire a un convegno organizzato sul tema degli incentivi nella produzione industriale. In questa occasione egli mise in evidenza come «gli psicologi delle industrie dovrebbero smetterla di perdere il loro tempo a escogitare trucchi e ingegnosi sistemi di cottimo, e dedicarsi invece a comprendere perché un uomo, tornato a casa dopo una dura giornata di lavoro, trova piacevole e naturale mettersi a zappare nel suo giardino». La ragione, a dire il vero, è molto chiara. Per quest’uomo il fatto di tornare a casa a zappare il giardino è ima cosa piacevole perché in quel momento si sente libero dal caporeparto, dal dirigente e dal padrone; libero dalla schiavitù e dalla monotonia di dover fare la stessa cosa tutti i giorni; libero di progettare ed eseguire il suo lavoro da capo a fondo. E lui a decidere quando e come cominciare, ed è responsabile solo verso se stesso. E soprattutto lavora perché ne ha voglia e non perché debba farlo. Lavora a un oggetto che gli è proprio e tutte le fasi del processo lavorativo sono, in questo caso, ricomposte nella sua attività. Il desiderio di essere padroni di se stessi è invero molto diffuso. Basta pensare a tutta la gente la cui ambizione, il cui sogno segreto è quello di dirigere una piccola azienda, o di gestire un negozietto, o comunque di mettersi in proprio; anche se questo potrebbe voler dire lavorare giorno e notte, e con scarse prospettive di farcela. Non molti sono così ottimisti da presumere di mettere insieme una fortuna in quel modo. Ciò a cui aspirano è soprattutto il senso di indipendenza che ne deriva, l’impressione di avere in mano le proprie sorti. Il fatto che nel ventesimo secolo la produzione e la distribuzione di beni e servizi siano affari troppo complessi per essere affidati a milioni di aziende individuali, non basta a sopprimere quest’ansia di autodeterminazione, come ben sanno i politici, i dirigenti e le gigantesche multinazionali. Ecco perché non mancano di proporre ogni sistema che favorisca la partecipazione dei lavoratori, da forme di gestione dell’azienda alla ripartizione degli utili con il personale, a forme di compartecipazione azionaria. Ogni soluzione viene tentata, insomma – dalle cassette per raccogliere i suggerimenti dei dipendenti ai comitati operai – per dare ai lavoratori l’impressione di non essere semplici ingranaggi del meccanismo industriale, garantendo, al contempo, che ogni controllo reale sull’industria sia rigorosamente sottratto ai lavoratori dei livelli più bassi. Si comportano, costoro, come il ricco del racconto di Tolstoj: sono disposti, cioè, a far qualsiasi cosa per l’operaio, fuorché rinunciare a farsi portare sulle spalle. In tutte le nazioni industriali, e probabilmente anche in quelle agricole, l’idea del «controllo operaio», se non più compiutamente dell’autogestione, si è manifestata di volta in volta come richiesta o aspirazione; sotto forma di programma politico o, spesso, di semplice utopia. Per limitarci a un secolo e a ima sola nazione, essa costituì il fondamento di due movimenti paralleli in Gran Bretagna negli anni intorno alla prima guerra mondiale: il sindacalismo e il cooperativismo socialista. Questi due movimenti si esaurirono durante i primi anni Venti, ma da allora in poi non sono mai cessati i tentativi, per quanto sporadici, di rimettere in piedi un movimento a favore del controllo operaio nell’industria. Per certi versi, l’atteggiamento ottimista dei sostenitori del controllo operaio era più giustificato negli anni Venti di quanto non lo sia oggigiorno. Nel 1920 il Rapporto Sankey (relazione di maggioranza di una commissione reale), che patrocinava il «controllo collettivo» e la proprietà pubblica dell’industria mineraria britannica, venne respinto dal governo perché troppo radicale, e dai delegati operai perché troppo moderato. Quando le miniere vennero effettivamente nazionalizzate trentanni dopo, nessuna proposta venne avanzata nella direzione del controllo dei lavoratori, foss’anche di tenore moderato e di scarsa incidenza reale come il «controllo collettivo». Nel 1920 iniziarono la loro breve ma felice esistenza anche le cooperative edilizie. Al giorno d’oggi sarebbe inconcepibile che importanti amministrazioni locali affidino contratti di costruzione per opere di rilievo a cooperative di lavoratori, o che a finanziare queste imprese fosse il movimento cooperativo. L’idea che ai lavoratori spettasse il diritto di parola nella gestione delle loro imprese era molto più universalmente accettata allora di quanto lo sarebbe stata in seguito. E questo nonostante il movimento sindacale sia oggi enormemente più forte di quanto non lo fosse negli anni ip cui il controllo operaio era ima rivendicazione diffusa. E successo che il movimento operaio nel suo complesso ha accettato l’impostazione secondo la quale, ridimensionando gli obiettivi, è più facile ottenere vantaggi. Nella maggior parte dei Paesi occidentali, come affermò Anthony Crosland, i sindacati, «favoriti da propizi mutamenti nel retroterra politico ed economico, con l’esercizio autonomo della loro forza contrattuale hanno sviluppato una capacità di controllo effettivo superiore a quella che avrebbero potuto ottenere attenendosi all’indicazione dell’esercizio diretto del controllo operaio, la cui credibilità era già minata dalle difficoltà pratiche contro le quali si erano arenati gli esperimenti precedenti». Questa osservazione è certamente vera, per quanto possa risultare sgradita a coloro che desidererebbero vedere i sindacati, o almeno le più vivaci delle federazioni industriali, farsi veicolo della rivendicazione del controllo operaio. Molti sostenitori del «controllo» hanno visto nei sindacati gli organi per garantirne l’esercizio, ritenendo probabilmente che il raggiungimento dell’obiettivo» avrebbe generato la completa comunanza degli interessi all’interno della fabbrica, rendendo in tal modo obsoleta la funzione di difesa esercitata in precedenza dalle organizzazioni sindacali. (Questo è, evidentemente, l’assunto in base al quale si è giustificata la struttura delle organizzazioni sindacali nell’impero sovietico). Io ritengo che un punto di vista del genere possa reggersi in piedi solo grazie a un semplicismo di giudizio molto grave. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale i Webb avevano sostenuto che «le decisioni dei comitati esecutivi, sia pure eletti nel modo più rispettoso delle regole democratiche, riguardo a salari, tempi e condizioni di lavoro di settori particolari, non sempre sono tali da soddisfare i diretti interessati, che spesso e ritengono ingiuste». E lo studioso jugoslavo Branko Pribicevic, nella sua storia del movimento degli shop- stewards in Gran Bretagna, criticando la fiducia da taluni riposta nelle organizzazioni sindacali come strumento del controllo operaio, si sofferma su questo punto: La gestione dell’industria è del tutto incompatibile con una delle caratteristiche fondamentali delle organizzazioni sindacali, quella cioè di essere una associazione volontaria di lavoratori, finalizzata principalmente a difenderli e a rappresentarne gli interessi. Anche nel sistema industriale più democratico, quello cioè in cui i lavoratori siano messi in condizione di partecipare alla gestione dell’azienda, l’organizzazione sindacale resterebbe necessaria… Infatti, se anche immaginassimo che i dirigenti debbano render conto al complesso dei lavoratori, non sarebbe perciò da escludere la possibilità di ingiustizie o di errori individuali. E di questi casi dovrebbe occuparsi il sindacato… Sembra molto improbabile che un sindacato si dimostri in grado di svolgere queste sue funzioni con successo se diventa contemporaneamente l’organo della gestione aziendale, o se ha, in altre parole, perduto il carattere di associazione volontaria. È una vera e propria iattura che l’idea di controllo operaio sia stata quasi completamente identificata col concetto di controllo sindacale… Fu chiaro fin dall’inizio che i sindacati si sarebbero opposti ad ogni ipotesi che mirasse a creare nell’industria una struttura rappresentativa parallela alla loro. In realtà, nel caso degli unici esempi di gestione operaia che abbiamo in Gran Bretagna, sia essa totale o parziale, la struttura sindacale è rigidamente separata da quella amministrativa, e nessuno ha mai formulato ipotesi diverse. Ma quali sono questi esempi? Bene, ci sono cooperative che producono calzature, commercializzate poi da cooperative di vendita al dettaglio. Nei loro limiti esse costituiscono un esempio genuino di controllo dei lavoratori (inutile dire che non mi riferisco affatto alle fabbriche gestite dalle Wholesale Society Cooperatives secondo criteri squisitamente capitalistici); tuttavia, non sembrano in grado di espandersi, o di esercitare alcuna influenza sulla struttura industriale nel suo complesso. Ci sono poi i pescatori di Brixham, nel Devon, e i minatori di Brora, lungo la costa del Sutherland in Scozia. Questo pozzo era destinato a esser chiuso, ma i minatori lo hanno rilevato dal National Coal Board, costituendo una loro società. Non si possono dimenticare le aziende dove qualche forma di cogestione è stata messa in atto per iniziativa di imprenditori idealisti, (penso ad esempio alla Scott Bader Ltd). Ci sono pure strane officine di modeste dimensioni, come gli impianti della Rowen Engineering Company in Scozia e Galles. Ho fatto questi esempi non perché siano particolarmente significativi da un punto di vista economico, ma perché generalmente si ritiene che il controllo dell’industria &e parte dei lavoratori sia un’idea meravigliosa, resa però impraticabile da qualche imprecisata carenza, non già dell’idea in sé, ma di quel tipo umano definito abitualmente come «lavoratore». Il corrispondente sindacale del «Times» affermò ima volta a proposito di operazioni di questo genere che, se esse forniscono «le condizioni per un’armoniosa autogestione in ambiti ristretti», non sembra però siano in grado di garantire «alcuna soluzione al problema della fondazione di strutture democratiche nelle industrie di grosse dimensioni». Più diffusa dell’opinione che i lavoratori abbiano un’innata capacità di autogestirsi, è la mesta conclusione che il controllo dei lavoratori è un’ottima idea, la cui realizzazione è però impossibile a causa delle proporzioni e della complessità dell industria moderna. Daniel Guérin raccomanda un’interpretazione dell’anarchismo che «sappia fondarsi sulle caratteristiche della grande industria moderna, su tecniche aggiornate, sul moderno proletariato e l’internazionalismo su scala mondiale». Ma non ci sa dire in che modo. Si potrebbero contestare le argomentazioni relative alle compatibilità e alle dimensioni evidenziando come i mutamenti nell’approvvigionamento delle fonti di energia rendano obsoleta la concentrazione geografica della produzione industriale, e come le modifiche nell’organizzazione del lavoro (l’automazione, ad esempio), ormai non giustifichino più neppure la concentrazione di un gran numero di operai. La decentralizzazione è perfettamente praticabile, e probabilmente addirittura vantaggiosa economicamente, nel quadro dell’attuale struttura industriale. Ma in realtà le posizioni che dicono di tener conto delle caratteristiche di complessità dell’industria moderna significano ben altro. Che cosa vuol dire in sostanza la posizione degli scettici? Che essi sono magari disposti a immaginare il caso isolato di una piccola impresa in cui le azioni sono detenute dai dipendenti, ma che viene gestita secondo normali criteri imprenditoriali – come la Scott Bader Ltd. – oppure ad accettare la stranezza di una ditta nella quale i lavoratori eleggano un comitato di gestione, come nel caso delle cooperative. Ma non riescono affatto a ipotizzare che le leve di comando dell’economia vengano turbate, o men che meno influenzate da questi ammirevoli, limitati esperimenti. Naturalmente hanno ragione: l’aspirazione al controllo operaio non s’è mai spenta completamente, ma non ha, almeno finora, assunto un respiro tale da impensierire i responsabili dell’industria. E ciò malgrado le implicazioni ideologiche del Work-in. La piccola minoranza che amerebbe mutamenti così rivoluzionari non deve nutrire illusioni al proposito. E ben difficile che trovi consensi anche all’interno dei partiti di sinistra e nelle stesse organizzazioni sindacali. D’altra parte, la storia dei movimenti sindacali dei vari Paesi, anche della stessa Spagna, non può costituire motivo d’ottimismo. Geoffrey Ostergaard descrive in questi termini la contraddizione che li caratterizza: «Per esercitare in modo adeguato la loro funzione di organizzazioni difensive, i sindacati furono costretti ad assumere dimensioni sempre più di massa, e ciò li condusse inevitabilmente a perdere di vista i loro obiettivi rivoluzionari. In pratica i sindacalisti si trovarono a scegliere tra organizzazioni riformiste ed esclusivamente difensive oppure rivoluzionarie ma assolutamente incapaci di incidere sulla realtà». È possibile risolvere positivamente questo dilemma? Esiste un’impostazione che sia in grado di combinare la lotta quotidiana dei lavoratori nelle fabbriche, sul salario e le condizioni di lavoro, con uno sforzo più radicale capace di spostare gli stessi equilibri di potere in fabbrica? Io credo che un’impostazione del genere esisteva in quello che sindacalisti e cooperativisti erano soliti definire come encroaching control, il quale si avvaleva di forme di «contratto collettivo» Il «contratto collettivo» era concepito dai sindacalisti come «un sistema in base al quale i lavoratori di una fabbrica o di una bottega artigiana ricevevano, in cambio di una determinata quantità di lavoro, una somma complessiva destinata ad essere ripartita tra i componenti del «gruppo di lavoro» secondo criteri da loro stabiliti; da parte loro, i datori di lavoro rinunciavano ad ogni forma di controllo sul processo lavorativo vero e proprio». G.D.H. Cole, ritornato negli ultimi anni della sua vita ad essere sostenitore del sistema del «contratto collettivo», affermava che «l’effetto [di tale sistema] sarebbe quello di unire i membri del gruppo di lavoro in un’impresa comune, da realizzare secondo i loro auspici e sotto il loro controllo, e di emanciparli da regole e discipline imposte in modo esterno rispetto al metodo di lavoro a loro più congeniale». Sono convinto della giustezza di questa affermazione, come del resto testimoniano gli esempi di sistema a squadre sviluppato in alcune fabbriche di Coventry, che presentano molti punti in comune con l’idea del contratto collettivo e, soprattutto, del sistema «a lavorazione composta», messo in atto in alcune miniere di carbone del Durham, le cui analogie col modello in discussione sono ancora più strette. Il sistema a squadre è stato descritto da un americano, Seymour Melman, docente di tecnica dell’organizzazione e della direzione aziendale, nel suo libro Decision-Making and Productivity (Processo decisionale e produttività), in cui cerca di dimostrare «che esistono realistiche alternative al ruolo dei dirigenti nella organizzazione produttiva». Sono anni che faccio pubblicità a questo libro per il semplice motivo che in mezzo a tante chiacchiere pretenziose sulla direzione aziendale (che probabilmente non arrivano a ingannare gli operai, ma ingannano certamente i quadri dirigenti), è l’unica ricerca nella quale mi sia imbattuto che solleva il problema di fondo: sono proprio necessari i dirigenti? Melman si era messo alla ricerca di un prodotto che venisse costruito identico in condizioni diverse, e lo individuò nel trattore Ferguson costruito, su licenza, sia a Detroit sia a Coventry. Il suo resoconto del modo di operare del sistema a squadre a Coventry mi è stato confermato da un tecnico che vi lavorava, Reg Wright. A proposito della fabbrica di trattori della Standard (egli scrive del periodo precedente alla vendita dell’impianto da parte della Standard alla Massey-Ferguson, nel 1956, e all’acquisto della Standard da parte della Ley- land), Melman afferma: «Della fabbrica si possono mettere in evidenza queste caratteristiche, contemporaneamente Dresenti: migliaia di operai lavorano praticamente senza supervisione, così com’è generalmente intesa, con una produttività molto elevata, tanto che i salari sono i più alti pagati nell’industria britannica; in officine altamente meccanizzate vengono prodotte a prezzi accettabili macchine di alta qualità; le spese di direzione sono ridotte in modo insolito; inoltre i lavoratori organizzati hanno un peso rilevante nel processo di formazione delle decisioni relative alla produzione». La politica produttiva dell’azienda in quel periodo era assolutamente eterodossa rispetto al complesso dell’industria automobilistica ed era il risultato dell’interrelazione di due sistemi di formazione delle decisioni, aventi per soggetto rispettivamente i lavoratori e la direzione: «Per quanto riguarda la produzione, la direzione aziendale era preparata a pagare alti salari e a organizzare l’attività produttiva col sistema delle squadre, che impone ai quadri dirigenti di avere a che fare con una forza lavoro organizzata, piuttosto che con operai singoli o piccoli gruppi… i capi reparto sono destinati a un’accurata sorveglianza sulle cose invece che a un controllo asfissiante sulle persone… Il funzionamento di impianti integrati che impiegano diecimila persone nel ciclo produttivo non ha bisogno del marchio costoso e complicato della direzione aziendale». Nella fabbrica di automobili erano state formate quindici squadre in ognuna delle quali lavoravano dalle cinquanta alle cinquecento persone; l’intero settore dei trattori era invece organizzato in un’unica grande squadra. Dal punto di vista degli operai «il sistema a squadre si rivela interessante perché concentra il controllo sulle merci invece che sugli uomini». Per la determinazione delle paghe si misurava la produzione dell’intera squadra. In rapporto ai quadri dirigenti, Melman afferma: «La voce collettiva della forza lavoro, unificata dal gruppo, produce un impatto di gran lunga maggiore rispetto alla pressione dei singoli operai. Questo importante effetto del sistema a squadre, amplificato dalla forza delle organizzazioni sindacali, è stato compreso in tutte le sue implicazioni da molti dirigenti d’industria inglesi. Come conseguenza, molte direzioni aziendali si sono opposte all’uso del sistema a squadre, sostenendo invece i vantaggi dell’incentivazione individuale». Con un efficace confronto, Melman contrappone «lo spirito di vorace competizione» che caratterizza il sistema manageriale di formazione delle decisioni al controllo operaio, «nel quale la caratteristica più significativa del processo di formazione delle decisioni è quella della mutua collaborazione, che in ultima analisi attribuisce agli stessi lavoratori organizzati la facoltà di decidere». Sottolineando i connotati profondamente umani di quella forma di organizzazione industriale, Reg Wright afferma: Il sistema a squadre libera gli operai da molte preoccupazioni, permettendo loro di concentrarsi esclusivamente sul lavoro. Tale metodo garantisce una struttura naturale di sicurezza, dà fiducia, consente un’equa distribuzione dei soldi, sa avvalersi senza distinzioni di ogni grado di abilità specifica, e permette di affidare le mansioni all’uomo o alla donna più indicati; tra l’altro tale affidamento è fatto spesso dai lavoratori stessi. E il cambio di mansioni, allo scopo di evitare la monotonia, non risulta un’operazione troppo complicata. Il caposquadra è stato abolito, e gli stessi capiofficina svolgono qui la funzione di tecnici che vengono consultati per avere consigli oppure in caso di guasti o di emergenze. In alcune aziende esiste effettivamente un responsabile di squadra, ma il suo compito è quello di organizzare il lavoro, non gli operai. D suo salario è parte del guadagno complessivo della squadra, e se la squadra è piccola partecipa lui stesso alla produzione. In squadre di maggiori dimensioni l’organizzazione del lavoro e la fornitura di parti e di materiale lo occupano compieta- mente. In squadre ancor più grandi è possibile trovare un viceresponsabile ed anche un delegato di squadra, in genere un sindacalista o comunque un rappresentante dei lavoratori, la cui funzione è quella di far valere il punto di vista degli operai nel caso che i responsabili si mostrino troppo disponibili nei confronti della direzione aziendale, o interferiscano in modo indebito con i singoli lavoratori. Il delegato ha la facoltà, quando necessario, di convocare assemblee di squadra per garantire a tutti l’informazione e la facoltà di critica su ogni argomento. Chi ricopre le tre cariche di cui si è parlato è soggetto a rotazione. I miglioramenti tecnici, frutto di solito della riflessione di una o due persone soltanto, in questo caso risultano dall’attenzione continua di tutti… Wright inoltre sottolinea che «il fatto di assumersi delle responsabilità in una di talj funzioni ha un effetto educativo da ogni punto di vista». È indubbio che i metodi abituali di organizzazione del lavoro non solo producono effetti di divisione («ti taglierebbero la gola per una mezz’ora di straordinario in più», ha detto un operaio della Ford a Graham Tumer), ma sono anche profondamente diseducativi poiché riducono il lavoratore, secondo l’espressione di Eric Gill, a una «condizione subumana di deresponsabilizzazione intellettuale». Un altro esempio mi viene dall’industria mineraria nel Durham. David Douglass, nel suo libro Pit Life in County Durham (La vita nei pozzi del Durham), critica i tentativi del National Coal Board di introdurre misure di controllo sempre più intense sul lavoro dei minatori, nell’intento di far funzionare le miniere come vere e proprie fabbriche, sottolineando che «una delle poche caratteristiche che contribuiscono a riscattare il lavoro nei pozzi, a cui i minatori tengono moltissimo, è quella dell’autonomia del lavoro»; per cui, mentre «la maggior parte degli operai di fabbrica nella miniera non vede che un buco nero e sporco, i minatori, a loro volta, considerano la fabbrica come una prigione e quelli che ci lavorano come dei prigionieri». Ai primordi dell’attività mineraria nel Durham, spiega Douglass, «il minatore era completamente indipendente. Gli scavatori potevano organizzare la propria attività, liberi nel modo più assoluto da ogni forma di supervisione. Il grado di autogestione (per quanto, evidentemente, limitato dalla proprietà privata) era quasi totale». Douglass parla del cavilling (metodo in base al quale il luogo in cui lavorare veniva estratto a sorte per garantire un’equa distribuzione delle possibilità di guadagno) come: della forma più significativa con la quale il minatore del Durham riusciva a impostare un sistema di lavoro egualitario, evitando la competitività, la tirannia e l’ingiustizia dell’odiata struttura dell’intermediario. In sostanza si trattava di un embrione di controllo operaio, come risulta dalla facilità con cui, in questo modo, si risolvevano senza intervento di terzi le dispute tra gruppi di lavoratori. Era un vero piccolo soviet, cresciuto all’interno del sistema capitalistico. In questo senso, quindi, si può dire che le sue possibilità di sviluppo fossero limitate. È comunque un atteggiamento tipico del lavoratore che interviene consapevolmente nel processo produttivo quello di affermare con decisione: questo è il modo con cui io lo gestisco, voi sappiatevi regolare. Un tentativo di gestire le miniere come fabbriche, simile a quello di cui si lamenta David Douglass, accompagnò nel dopoguerra l’introduzione del sistema produttivo chiamato long wall. Il Tavistock Institute ha prodotto uno studio comparato della lavorazione long wall tradizionale, caratterizzata all’introduzione della divisione del lavoro e di metodi mutuati dalla fabbrica, e il metodo composite long wall, cioè con le modifiche apportatevi dai minatori in alcuni pozzi. L’importanza di tale studio per lo sviluppo del mio discorso si può comprendere dalla lettura del brano iniziale di uno dei documenti di cui è costituito: Questo studio riguarda un gruppo di minatori messisi insieme per sviluppare un nuovo metodo di lavoro collettivo, dalla programmazione dei mutamenti che intendevano apportare fino alla sua pratica verifica. Il nuovo tipo di organizzazione del lavoro, conosciuto nell’industria col nome di «lavorazione composta», si è sviluppato negli anni scorsi in un certo numero di pozzi nei campi carboniferi del Durham nord-occidentale. Tale metodo affonda le sue radici in una antica tradizione, estintasi quasi completamente nel corso del secolo diciannovesimo con l’introduzione di tecniche di lavoro basate sulla segmentazione delle mansioni, su qualifiche e salari differenziati e su un controllo gerarchico fondato su criteri estrinseci al processo produttivo. Un successivo rapporto mette in evidenza come l’inchiesta abbia dimostrato che «gruppi di lavoro di 40-50 membri sono in grado di comportarsi come organismi sociali che si organizzano e regolamentano autonomamente, garantendo contemporaneamente un grado elevato di produttività». P.G. Herbst descrive il sistema a «lavorazione composta» in un modo che mette chiaramente in luce le sue analogie con il sistema delle squadre: La struttura della «lavorazione composta» è tale per cui il gruppo di lavoro si assume completa responsabilità in rapporto all’intero ciclo di operazioni che l’estrazione del carbone comporta. Nessun membro del gruppo ha una mansione fissa. Al contrario i lavoratori si distribuiscono gli incarichi a seconda delle esigenze: all’interno dei limiti dettati dalle tecniche di cui dispongono e da motivi di sicurezza, sono liberi di organizzare la produzione loro affidata nel modo che ritengono più opportuno. Da questo punto di vista non sono sottoposti ad alcuna autorità esterna, e all’intemo del gruppo non c’è nessuno che abbia funzioni dirigenti formalmente riconosciute. Mentre nel sistema long wall convenzionale l’estrazione del carbone viene scomposta in quattro, o otto, mansioni relative a operazioni diverse – svolte da squadre differenti, ciascuna delle quali con una sua propria tabella salariale – nel sistema a «lavorazione composta» i membri del gruppo non vengono pagati a seconda delle mansioni individuali. L’accordo salariale complessivo è invece basato sul prezzo stabilito per ogni tonnellata di carbone prodotta dal gruppo. Il ricavato viene diviso in parti uguali tra i membri della squadra. Questi esempi di controllo dei lavoratori sul proprio lavoro sono molto importanti ai fini di un approccio anarchico ai problemi dell’organizzazione industriale. In particolare perché non prevedono alcuna sottomissione a tecniche paternalistiche di direzione aziendale, anzi demoliscono concretamente il mito che i quadri dirigenti abbiano abilità specifica e siano indispensabili. Perché inoltre costituiscono un elemento a favore della solidarietà e non della divisione tra lavoratori, quale è determinata dalle differenze di salario e di qualifica. Perché infine illustrano con dovizia di argomentazioni che è possibile restituire alla fabbrica e ai gruppi di lavoratori la responsabilità della formulazione delle decisioni. E perché, oltretutto, sono in grado di soddisfare la fame capitalistica di produttività, per quanto la mia simpatia non si fondi evidentemente su criteri di questo genere. Gli esempi fatti, come l’idea sempre più diffusa che i lavoratori abbiano diritto al possesso del proprio lavoro – tacitamente riconosciuta dalle leggi sul salario ai disoccupati, attivamente sostenuta dagli operai che hanno concretamente preso possesso del posto di lavoro, come nel caso dell’entrata in fabbrica dimostrativa alla Upper Clyde Shipbuilders – hanno il grande merito politico di saper combinare obiettivi immediati con aspirazioni strategiche. E dunque possibile che siano i lavoratori a dirigere l’industria? Certamente è possibile. E già lo fanno. Nessuno degli esperimenti di controllo operaio che ho descritto esiste oggi nella stessa forma, per ragioni che non hanno nulla a che fare con l’efficienza e la produttività. Nel caso del Durham si è trattato della preferenza che il National Coal Board (a capitale pubblico) ha recentemente manifestato per i campi carboniferi dello Yorkshire meridionale e di Nottingham. Nel caso della Standard tutto è dipeso dall’assorbimento (patrocinato da un governo laburista) che ha condotto alla formazione della British Leyland, nella quale si vedeva un cartello di dimensioni sufficienti per competere sui mercati con i giganti a capitale americano e con l’industria europea. In realtà l’industria non è affatto retta secondo criteri di tipo tecnico; è invece dominata dai direttori commerciali, dai ragionieri e dai grandi finanzieri, che nella loro vita non hanno mai fatto altro se non maneggiar denaro. Sono ben pochi coloro per cui il lavoro costituisce una attività piacevole di per se stessa, e la produzione di costoro rispetto al totale della popolazione lavoratrice diminuisce sempre più man mano che cresce la meccanizzazione e la segmentazione del processo produttivo. L’automazione – dalla quale ci si aspettava che riducesse la faticosità del lavoro manuale e la fatica mentale del lavoro impiegatizio – è ora temuta perché in pratica non fa che ridurre le possibilità di trovare lavoro e si risolve in un risparmio di lavoro non per gli operai e gli impiegati, ma per i possessori o gli amministratori del capitale. Pochi fortunati si vedono destinati ai posti di lavoro creati dall’automazione, o semplicemente non distrutti dalla medesima. La maggioranza degli sfortunati, condannata fin dall’infanzia ai lavori più monotoni, vede la possibilità di accedervi ridotta o addirittura eliminata dalla «razionalizzazione» del lavoro. Pensate sia possibile immaginare che in una situazione nella quale la gestione di una fabbrica, di un’industria o di un qualsiasi luogo di lavoro fosse nelle mani della gente che vi lavora, questa si accontenterebbe di far andare avanti produzione, distribuzione e manutenzione nel modo come siamo abituati a vederle funzionare oggi? Perfino all’intemo della società capitalistica (per quanto non nel settore «pubblico», che appartiene al «popolo») alcuni datori di lavoro ritengono che ciò che loro chiamano job enlargement (allargamento delle mansioni) o job enrichment (arricchimento delle mansioni), cioè la sostituzione del lavoro alla catena con unità di assemblaggio completo, o la deliberata rotazione delle mansioni nel processo produttivo, consenta un aumento della produttività semplice- mente perché riduce la noia. Ma quando tutti nell’indu- stria avessero diritto di parola, si limiterebbero a questo? Nel suo brillante saggio Work and Surplus (Lavoro e surplus), Keith Paton immagina che cosa succederebbe in ima fabbrica di automobili qualora i lavoratori ne prendessero possesso. «Dopo la festa della rivoluzione giungono gli appelli a tornare al lavoro», ma tornare a testa china a ricevere ordini ed esortazioni, al solo scopo di vedere aumentato il Prodotto nazionale lordo, vorrebbe dire tornare al punto di partenza. D’altra parte la produzione deve pur andare avanti su una qualche base. Ma su quale base? E a quale tipo di lavoro ritornare? Allora, invece di far ripartire la catena (nel caso che i giovani non l’abbian già demolita) essi passeranno i due mesi successivi a discutere lo scopo del loro lavoro e come riorganizzarlo. Auto private? Perché la gente ha sempre bisogno di muoversi? È forse perché il posto dove stanno è tanto insopportabile? E che parte gioca l’automobile nel creare questo bisogno di fuga? Che vantaggi porta il suo uso quotidiano? H vantaggio di restare quotidianamente bloccati nel traffico? E i costi per il Paese? In culo i «costi per il Paese», è un’idiozia come «l’interesse nazionale». Avete mai visto la faccia dei vecchi quando devono attraversare una strada piena di traffico? E l’incomodo per i pedoni? Qual è allora il motivo per cui si compra un’automobile? È solo per il desiderio di possederla? Ma pensiamo davvero che il valore di un’automobile possa trasferirsi su di noi? È assurdo. E avere una macchina fa davvero risparmiare del tempo? Quanto si lavora in media nell’industria manifatturiera? Consultiamo le statistiche: 45,7 ore di lavoro alla settimana. Qual è la percentuale del salario settimanale che se ne va in spese per l’automobile? H 10,3 per cento degli introiti di tutte le famiglie. Il che significa più del 20 per cento se hai un’automobile, perché più della metà di noi non ne ha nessuna. E che cosa significa il 20 per cento di 45 ore? Cristo, 9 ore! Un bel po’ di tempo buttato via per «risparmiare tempo». Ci dovrà pur essere un modo migliore per spostarsi da un punto all’altro. L’autobus? Bene, costruiamo autobus. E per l’inquinamento? Potrebbero forse andare quelle macchine elettriche che han fatto vedere alla televisione una volta? Ecc. ecc. Paton prevede poi un altro mese di studi e di discussioni organizzate in gruppi intersecantisi affinché gli operai si mettano d’accordo per una definitiva reimpostazione dell’organizzazione della fabbrica, destinata alla produzione di oggetti ritenuti dagli operai socialmente utili. Ad esempio la revisione delle automobili (per accrescere il valore d’uso dei modelli già in circolazione), autobus, vagoni di metropolitana, auto e scooter elettrici, biciclette bianche per la città (secondo le indicazioni dei provos di Amsterdam), complessi residenziali, possibilità di lavoro più semplice per gli emarginati, o per i bambini e i vecchi che vogliano rendersi utili. Ma considera altri aspetti dell’autogestione operaia, per esempio il lavoro volontario extra. «Man mano che si riesce a rendere il lavoro sempre più piacevole, con uno sviluppo delle scienze applicate e dell’organizzazione sociale che consenta di investire con elevati livelli tecnologici settori sempre più numerosi della produzione, l’idea di una prestazione volontaria, oltre alle ore dell’orario settimanale (ridotto), diventa un’ipotesi realizzabile. Diventa addirittura superfluo fissare la durata della settimana lavorativa». Quale lo scopo del lavoro volontario? «A New Delhi hanno bisogno di autobus, costruiamoglieli noi». La fabbrica stessa è aperta alla comunità, compresi i bambini. «In tal modo ogni operaio diviene un potenziale consulente di studi ambientali»: basta che un bambino entri in fabbrica e gli chieda del funzionamento di qualcosa». Insomma la fabbrica si trasforma in un’università, in un luogo d’apprendimento invece che di rimbecillimento forzato, come ora, dove «delle capacità di un uomo se ne usa un milionesimo», come ha affermato Norbert Winer. L’evoluzione e la trasformazione della fabbrica, così come è delineata da Keith Paton, ci riconduce all’idea delle officine comunitarie di cui si è parlato nel capitolo precedente. Si è portati ad esempio a pensare aU’industria automobilistica come quella in cui da un estremo entra il minerale di ferro e dall’estremo opposto escono le auto complete (per quanto chi acquista un’automobile «del venerdì», nella società attuale, dovrebbe ricordare che quella macchina è uscita dalla catena in un momento in cui gli operai sono ormai in attesa che cominci la loro «vera» vita, quella del week-end). Ma in realtà il valore di una macchina all’uscita della fabbrica è costituito per due terzi dal valore dei componenti acquistati da fornitori esterni. L’industria automobilistica, come molte altre industrie, è un’industria di montaggio. La diffusione di questa caratteristica alla maggior parte delle industrie produttrici di beni di consumo, unita al dato, tipico delle società capitalistiche, dell’ampia diffusione di capacità industriali e di fonti di energia, comporta che, come hanno scritto i fratelli Goodman in Communitas, «in vasti settori dell’attività produttiva si potrebbe ritornare a forme simili a quelle della vecchia impresa familiare, guadagnando forse anche in efficienza, perché ovunque sono disponibili fonti di energia, i macchinari di ridotte proporzioni sono economici e tecnicamente perfetti e, oltretutto, non è difficile trasportare parti lavorate per poi montarle centralmente». Ma significa anche che non sarebbe poi così complicato montare localmente i pezzi localmente costruiti. E questo avviene già al livello delle scatole di montaggio per dilettanti. Sono ormai diffusissime, ad esempio, le scatole per il montaggio completo di radio, giradischi e apparecchi televisivi, e addirittura sono disponibili sul mercato frigoriferi e automobili da montare. Gruppi di officine comunitarie potrebbero mettersi d’accordo per acquistare all’ingrosso le parti da montare, oppure per dividersi, a seconda della loro capacità produttiva, la produzione di componenti per lo scambio reciproco e per il montaggio sul posto. Il nuovo settore industriale dei lavorati plastici (volendo ammettere che in una futura società trasformata la gente ritenga conveniente farne uso) offre moltissime possibilità non ancora sondate per le officine comunitarie. Esistono, al giorno d’oggi, tre principali tipi di materiali plastici: quelli termoindurenti, che vengono plasmati a calore, con pressioni elevatissime, e che richiedono di conseguenza macchinari di difficile funzionamento e dal costo, per ora, molto alto; le termoplastiche, che vengono modellate per estrusione o per iniezione (esistono già sul mercato macchine per la lavorazione a iniezione delle termoplastiche, destinate a chi vuole avvalersene personalmente); e infine le resine poliesteri, usate insieme a materiali di rinforzo, come la fibra di vetro, che si possono plasmare a basse pressioni per semplice stampaggio a contatto e che sono perciò le più adatte alle possibilità delle officine comunitarie. Come spesso ci insegna la nostra personale esperienza, i prodotti industriali in questa società vengono costruiti per una vita breve e destinati a una precoce obsolescenza. I prodotti disponibili sul mercato non sono certo quelli che noi vorremmo possedere. In una società gestita dai lavoratori, non ci sarebbe alcun interesse a produrre articoli in modo calcolato perché si rompano subito, e neppure a costruire cose che non si possono riparare. Ogni prodotto avrebbe caratteristiche tali da rendere facilmente comprensibile il funzionamento e semplice la riparazione. Quando Henry Ford lanciò sul mercato per la prima volta il suo modello T, puntava a un mezzo che «qualsiasi provinciale su una strada polverosa potesse aggiustare con un martello e una chiave inglese». L’iniziativa mandò quasi in rovina la sua azienda, ma è proprio questo il genere di prodotti di cui avrebbe bisogno una società anarchica: oggetti dal funzionamento molto semplificato, la cui riparazione possa essere intrapresa dallo stesso utente senza troppe difficoltà. Nel suo libro The Worker in an Affluent Society (Il lavoratore in una società dell’abbondanza), Ferdynand Zweig fa l’interessante osservazione che «spesso il lavoratore va a lavorare al lunedì disfatto dalle occupazioni del weekend, in particolare dai suoi hobby. Molti dicono che il week-end è il periodo più sfibrante della settimana, e che il lunedì mattina in fabbrica risulta, al paragone, rilassante». Viene da chiedersi che cosa sia il lavoro e che cosa il piacere – non nella società futura, ma ora, in questa nostra società – visto che si lavora più intensamente nel tempo libero che non sul posto di lavoro. Il fatto che uno di questi sia lavoro pagato, e l’altro no, sembra quasi fortuito. Ci rimanda, anzi, a un altro problema. Il paradosso del capitalismo contemporaneo è che esistono milioni di uomini e di donne che gli economisti americani chiamano no- people (gente che non esiste): l’esercito dei disoccupati che sono rifiutati, o coscientemente rifiutano la schiavitù senza senso della produzione industriale contemporanea. Potrebbero guadagnarsi da vivere oggi nelle officine comunitarie? Se l’officina è concepita puramente come un servizio sociale, destinato a fornire la possibilità di un divertimento creativo, la risposta è che probabilmente si tratta di qualcosa contro le regole. I membri della comunità potrebbero lamentarsi che il tale o il tal altro sfrutta gli strumenti messigli a disposizione per interessi personali di tipo commerciale. Ma se l’officina fosse concepita in modo più fantasioso rispetto a tutte le imprese di questo tipo oggi esistenti, potrebbe sviluppare le sue potenzialità al punto di diventare una vera e propria struttura di sopravvivenza. In parecchie delle New Towns, le «città nuove» inglesi, ad esempio si è ritenuto positivo e necessario costruire gruppi di piccole officine individuali e piccole imprese dedite a lavori come riparazioni elettriche e meccaniche, falegnameria e costruzione di semplici ricambi. L’officina comunitaria si vedrebbe migliorata dalla corona di botteghe individuali destinate ad attività lucrative. Non è forse possibile che le officine diventino la fabbrica della comunità, in condizione di garantire un posto a chiunque, abitando in loco, desideri lavorare a quel modo? E non è possibile che sappiano funzionare non come un qualcosa in più rispetto all’economia della società opulenta, che rifiuta un numero sempre più alto di suoi membri, ma come un embrione della futura economia autogestita? Ancora Keith Paton, in un lungimirante pamphlet indirizzato ai membri della Claimants’ Union,li sollecitava a non mettersi in competizione per posti di lavoro senza senso nella struttura economica che li ha messi alla porta come gente mutile, e di usare invece le loro capacità personali al servizio della comunità. (Una delle caratteristiche del mondo opulento è quella di negare ai suoi poveri ogni possibilità di nutrirsi, vestirsi, disporre di una casa decente e di sopperire ai bisogni propri e della famiglia, se non per mezzo dei sussidi distribuiti a malincuore e col contagocce dall’autorità). Paton ci spiega: Quando sosteniamo che «ciascuno faccia da sé ciò di cui ha bisogno», non vogliamo assolutamente dire che si debba ritornare alla produzione manuale. Questa sarebbe stata magari l’unica soluzione negli anni Trenta. Ma da allora l’energia elettrica e l’«abbondanza» hanno portato alla diffusione di macchinari «intermedi», alcuni dei quali molto complicati, al punto che ne possono disporre anche gruppi di normali operai. Anche se non si è in grado di possederli (come del resto molti membri della Claimants’ Union) esiste la possibilità di affittarli da vicini, parenti, ex compagni di lavoro. Macchine per maglieria e cucito, attrezzi elettrici ed altri macchinari per il lavoro in proprio appartengono a questa categoria. I garage possono essere convertiti in piccole officine; le ceste fatte in casa sono di moda; parti meccaniche e motori possono essere presi da carcasse di automobili e di altre macchine. Se ne vedessero l’opportunità, metallurgici e meccanici esperti sarebbero certamente capaci di impostare un’attività di rigenerazione dei rottami molto avanzata tecnologicamente, riciclando i rifiuti metallici della società dei consumi in prodotti senz’altro utili, anche se privi di valore commerciale. Molti appassionati degli hobby comincerebbero a vedere in un’altra luce l’attività che tanto li interessa. «Abbiamo bisogno l’uno dell’altro», continua Paton, «e dell’enorme riserva di energia e di forza morale che giace inutilizzata in ogni ghetto, in ogni quartiere povero». E buffo che quando si discute del problema del lavoro da un punto di vista anarchico, la prima domanda che ci viene rivolta sia questa: che cosa ne fareste dei pigri, di chi non ha voglia di lavorare? L’unica risposta possibile è che per secoli li abbiamo mantenuti. Il problema di fronte al quale si trova ogni individuo, ogni società è ben diverso, è come garantire a tutti ciò che più di ogni altra cosa desiderano: la possibilità di rendersi utili.

Tratto da: http://www.italianinsane.info/2014/senza-padroni/

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