Piccoli estremisti con le bombe a mano di Ben 10

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 Infuria la polemica sulla scuola araba di via Paravia, a Milano. Così ne parla Libero, a pagina 38:
« La scuola, a pagamento, accetta solo bambini egiziani e segue sia il programma ministeriale italiano sia quello egiziano. Gli insegnanti sono quasi tutti arabi e non parlano italiano. Tradotto: l’integrazione da queste parti è utopia. »
Scuola araba via Paravia Milano Libero

 E secondo Paolo Branca, docente di lingua araba alla cattolica di Milano, sarebbe "assurdo chiudere tutti gli stranieri in una scuola che è chiusa e inaccessibile. Ci siamo lamentati delle classi ghetto interculturali. Qui siamo di fronte a una scuola ghetto".


 Quando ero piccolo vivevo ad Alessandria d'Egitto. Alessandria era un'esempio di multiculturalità. I vicini di casa erano francesi, greci, inglesi, italiani, siriani, libanesi. E ovviamente egiziani. Tutti nello stesso palazzo. Il risultato era forse una guerra civile in scala condominiale? Al contrario: il risultato era che si faceva sempre festa. Quando era tempo di Pasqua, i cristiani portavano colombe, panettoni e uova colorate ai vicini. Quando era tempo di Ramadan, i musulmani invitavano i dirimpettai a tavola, dopo lo sparo del cannone al tramonto, e c'era da mangiare ogni ben di Dio. I greci insegnavano a tutti come mettere i cetrioli e lo yougurt nell'insalata. Nessuno parlava meno di tre o quattro lingue e il risultato era che spesso, nella stessa frase, si infilavano parole di lingue diverse.

 Io frequentavo, ad Alessandria, una scuola italiana gestita dalle suore. Insieme a tanti altri bambini italiani. Non sono mai stato costretto ad imparare l'arabo. Infatti non lo conosco (se non buongiorno, buonasera e qualche parolaccia). Mia madre, sempre ad Alessandria, frequentava le scuole francesi e si è diplomata maestra. Di lingua francese. Guarda che strano: in Egitto. L'arabo lo conosce bene perché, prima di andare in Australia, ha vissuto ad Alessandria per 17 anni. Tra gli amici greci, francesi, libanesi, siriani, italiani e via dicendo, ne aveva tanti arabi. Stare insieme era fonte di ricchezza, era lo stupore continuo dello scambio di tradizioni nuove, era la condivisione delle parti migliori. Nessuno si sarebbe mai sognato di invitare a cena un amico musulmano e preparargli una costoletta di maiale, così come nessuno si sarebbe sognato di invitare a cena un cristiano, in tempo di quaresima, e fargli trovare in tavola un piatto a base di agnello. Figuriamoci di far passeggiare un suino su un terreno destinato alla costruzione di una moschea.

 Quando mi sono trasferito in Italia, nello stesso complesso residenziale dove abitavo, a Milano, c'era una scuola americana. La frequentavano bambini americani (e qualche italiano) e le maestre parlavano rigorosamente inglese.

 Ora, vi prego, fatemi capire: visto che già cinquant'anni fa era normale in un paese musulmano come l'Egitto avere scuole (e chiese) per italiani, per francesi, per inglesi e così via; e visto che in Italia è normale avere scuole americane dove se non capisci l'inglese non puoi seguire le lezioni, perché mai una scuola araba dove ci sono insegnanti arabi che parlano in lingua araba a bambini arabi dovrebbe essere una "scuola ghetto"? Tanto più che i bambini che la frequentano sono tenuti ogni anno al doppio esame: debbono sostenerne uno sul programma ministeriale italiano e un altro al consolato egiziano per equipararlo al rispettivo titolo egiziano.

  O vogliamo forse sostenere che nella scuola di via Paravia si formano piccoli estremisti che al posto dell'astuccio e delle matite hanno cinture esplosive della Kinder e bombe a mano di Ben 10?

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