Il 12 e il 13 giugno gli italiani saranno chiamati ad esprimere il loro parere su due temi fondamentali: l'acqua e il nucleare. Di seguito un vademecum per capire quali sono le principali questioni legate ai quesiti referendari e perché sarà di estrema importanza che almeno 25 milioni di persone si rechino alle urne e votino per tre volte sì.
di Andrea Degl'Innocenti
Il 12 e 13 giugno si voterà su due temi di fondamentale importanza: l'acqua e il nucleare
Sono quattro i referendum in questione: due riguardano l'acqua, uno il nucleare, uno il legittimo impedimento. Di quest'ultimo non ci occuperemo in questa sede, dato che si tratta di un argomento molto circostanziato, che poco ha a che fare con gli altri due.
Iniziamo col chiarire un aspetto tecnico, che so per esperienza non essere così immediato. Chi vorrà affermare, in sede referendaria, che l'acqua è un bene comune e che il nucleare deve essere messo definitivamente al bando, dovrà votare per tre volte SI. Poi analizzeremo nel dettaglio cosa significa ciascuno di questi sì, ma vorrei fosse chiaro fin da ora che anche per dire no al nucleare va sbarrata la casella del sì. Se infatti è abbastanza intuitivo che si debba votare sì per l'acqua pubblica, potrebbe apparire un controsenso, a chi non abbia qualche nozione giurisprudenziale, barrare il sì per fermare il nucleare.
La ragione di questo apparente controsenso va ricercata nelle regole dell'istituto referendario. Sebbene nel nostro paese siano costituzionalmente previste quattro diverse forme di referendum, l'unica di fatto utilizzata è il referendum abrogativo. Quello cioè che chiede agli elettori se vogliono abrogare – ovvero sopprimere – una determinata legge o parte di essa. Tutti i referendum abrogativi iniziano così: “volete voi che sia abrogato” eccetera eccetera. Ecco quindi che per dire no al nucleare vi sarà chiesto di abrogare la norma che sancisce la sua introduzione nella legislazione italiana. Fatta questa doverosa precisazione andiamo ad analizzare più nel dettaglio i contenuti dei tre referendum.
L'ACQUA
L'acqua è un bene comune che appartiene a tutti
Il decreto Ronchi, decreto legge numero 135 del 2009, trasformata nella legge Ronchi-Fitto nel novembre dello stesso anno, ha completato l'opera di privatizzazione mettendo definitivamente al bando tutti quei comuni che avevano scelto la gestione in house. Si tratta di una legge sull'attuazione degli obblighi comunitari e i servizi pubblici locali che all'articolo 15 – quello incriminato – recita “adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici di rilevanza economica”. È chiaro fin da subito, dunque, che l'acqua è considerata alla stregua di una merce. Nella legge, poi, sono presenti alcune incongruenze che rendono chiaro come la tanto sbandierata “liberalizzazione dei servizi” si traduca in una svendita a favore dei grandi investitori privati. La prima viene definita da Daniele Martinelli “paradosso del mercato”: si prevede che tutti i soggetti privati scelti con affidamento diretto per affiancare i gestori pubblici mantengano le proprie quote, e che la partecipazione degli enti locali in queste società scenda sotto la soglia del 30 per cento entro il 2015. In altre parole, da un lato viene rivelato che alcuni soggetti privati si sono inseriti nella gestione pubblica dei servizi idrici senza passare per alcuna gara (come invece previsto dalla legge Galli); dall'altro viene concesso a tali soggetti di restare “in sella”, anzi di accrescere la propria partecipazione a discapito del pubblico, contraddicendo la legge del mercato (e della concorrenza) sul cui altare sono state sacrificate le gestioni in house. La seconda incongruenza viene definita “fallimento del mercato”: la legge prevede infatti che in alcune “situazioni eccezionali”, determinate da “caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale […] l'affidamento può avvenire a società a capitale interamente pubblico”. Ciò significa che il privato sarà libero di investire solo laddove ritiene possibile garantirsi un profitto.
Dopo questo excursus negli aspetti giurisprudenziali del processo di privatizzazione, occorre smentire alcuni luoghi comuni, confezionati ad arte, che circolano da tempo fra coloro che osteggiano i referendum e continuano a ripetere come un mantra che “privato è bello”. Eccoli di seguito.
L'acqua è un investimento reddeitizio grazie alle leggi attualmente in vigore, che prevedono una remunerazione minima garantita dell'investimento
Gestione privata=acqua pubblica. Infine ecco il più infido degli inganni, quello che vuole che ad essere privatizzata sia solo la gestione del servizio, mentre l'acqua, la sostanza, rimarrebbe un bene comune inalienabile. E ci mancherebbe! Nessuno sarebbe in grado, anche volendo, di appropriarsi e ingabbiare una risorsa che sgorga dalla terra e cade dal cielo. Ma ciò che interessa l'uomo nella sua vita di tutti i giorni è la sua gestione: chi porta l'acqua nella sua casa, a che prezzo e di quale qualità. Ci interessa che venga garantito a tutti il libero accesso alla risorsa. Che importa che questa sia formalmente di tutti se poi non tutti possono permettersela?
Ecco allora che per riaffermare la proprietà – o gestione che dir si voglia – comune dell'acqua sono stati elaborati due quesiti referendari (erano inizialmente tre ma uno non ha passato il vaglio della Corte Costituzionale).
Il primo richiede l'abrogazione dell'art. 23 bis Legge 133/08 e sue successive modifiche introdotte con l'Art. 15 del famoso Decreto Ronchi, di cui abbiamo già parlato prima (D.L. 135/2009); annullando tale articolo – che stabilisce come modalità ordinarie di gestione del servizio idrico l’affidamento a soggetti privati o a società a capitale misto pubblico-privato – si vuole contrastare l’accelerazione sulle privatizzazioni e la definitiva consegna al mercato dei servizi idrici.
Il secondo richiede l'abrogazione della parte dell'art. 154 del Decreto Ambientale 152/06 relativa alla remunerazione del capitale investito; si tratta di un decreto che, integrando e in parte sostituendo la Legge Galli, stabilisce che “la tariffa è determinata tenendo conto [...] dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito [...]”; abrogando questa parte di articolo si annulla il principio del profitto minimo garantito, rendendo l'acqua un investimento non più così conveniente.
IL NUCLEARE
Le scorie nucleari restano radioattive per oltre 200mila anni
Il problema maggiore che si sono trovati ad affrontare il Governo e la potente lobby del nucleare, è stato come convincere le persone – in buona parte le stesse che nell'87 dissero di no – che il nucleare è cosa buona e giusta; come mascherare la belva da cucciolo. Ecco allora che, scervellandosi, si sono inventati una sequela di fandonie persino più colossali ed abbondanti di quelle sull'acqua.
Un'ottima ricognizione è quella fornita da Legambiente in un ampio contributo che rendiamo disponibile a lato di questo articolo. Alcune sono menzogne spudorate: “il nucleare è una fonte di energia rinnovabile”, “il nucleare sarà la prossima fonte energetica del futuro nel mondo”; è ovvio che il nucleare non è un'energia rinnovabile in quanto si basa sullo sfruttamento di una materia prima, l'uranio, presente in natura in quantità finite (per non dire scarse), e di conseguenza è altrettanto palese che l'energia del futuro non sarà quella nucleare. Altre più sottili: “il nucleare è pulito”, “il nucleare aiuta a ridurre il surriscaldamento del pianeta”; certo il nucleare è più pulito rispetto ad una centrale a carbone in termini di emissioni, ma come vedremo le perdite radioattive in seguito agli incidenti ed il problema delle scorie rendono quella nucleare un'energia tutt'altro che pulita. Altre ancora, infine, erano considerate quasi dei dati di fatto assodati prima che l'ennesimo disastro, quello di Fukushima, svelasse al mondo intero la loro natura menzognera: “il nucleare di nuova generazione è sicuro”, “un disastro come quello di Černobyl' non potrà più ripetersi”.
Questa sequela di luoghi comuni e falsità serve a coprire le tre grandi aree problematiche che riguardano il nucleare: la sicurezza, lo smaltimento delle scorie e l'antidemocraticità.
L'energia nucleare è eltamente antidemocratica in quanto è affidata nelle mani degli eserciti che possono decidere quali informazioni divulgare e quali tenere segrete
L'antidemocraticità. Un'ultima area problematica relativa all'energia nucleare è quella della mancanza di democrazia nella sua gestione. Le centrali nucleari, nel mondo, sono sotto il diretto controllo degli eserciti o di collegi specifici, che possono decidere quali informazioni diramare, quali tenere segrete. Come ammette Renaud Abord de Chatillon, ingegnere membro del Corps des Mines (il collegio che controlla il nucleare in Francia), “l'industria del nucleare non sa che farsene della democrazia, è simile ad un'aristocrazia repubblicana. E dove c'è aristocrazia non c'è spazio della democrazia”. La segretezza che circonda il nucleare ha indotto molti a pensare che il nucleare civile, quello usato per la produzione di energia, nella maggior parte dei casi non sia che una mera copertura per i programmi nucleari militari. Come sostiene il fisico Amory Lovins, “l'elettricità in una centrale nucleare non è che un sottoprodotto”.
Per fermare il ritorno del nucleare in Italia il quesito referendario presentato dall'Italia dei Valori propone di abrogare l'articolo 7, comma 1, lettera d del decreto-legge 112 del 2008, che prevede la "realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare".
CONNESSIONI
Nucleare e acqua: due tematiche fortemente correlate
DEMOCRAZIA DIRETTA E PARTECIPATIVA
Vorrei concludere questa panoramica con una considerazione sul valore simbolico dello strumento referendario all'interno del processo di riappropriazione di due beni comuni fondamentali come l'acqua e l'energia. Il referendum è uno strumento di democrazia diretta, l'unico – se si escludono le leggi di iniziativa popolare, così poco considerate in Parlamento – che permette ai cittadini di dire la loro, di incidere sulla configurazione societaria senza passare per interposta persona.
Ma il referendum è anche il punto culminante di un cambiamento sociale di cui tutti noi ci possiamo fare portavoce. Un cambiamento che è già in atto e che afferma che non tutto può essere considerato una merce, che esistono dei beni che appartengono a tutti e degli argomenti su cui tutti hanno il diritto di prendere decisioni. Il compito che ci spetta non si può ridurre all'atto di andare a votare. Quello sarà solo l'ultimo atto. Se vogliamo veramente riappropriarci della nostra facoltà decisionale, di quella sovranità che ci è assegnata dalla costituzione e sottratta, ogni giorno, da chi usa la politica come uno strumento per curare i propri interessi, dobbiamo darci da fare fin da adesso. Dobbiamo immettere le nostre conoscenze in rete, fare rete noi stessi. E per reti non intendo semplicemente il web, o internet; internet è solo un esempio di rete. La rete è piuttosto una forma, un modello sul cui stampo si configurano le relazioni sociali contemporanee. Dunque mettere un contenuto in rete significa condividerlo all'interno delle proprie reti di relazioni sociali, con i mezzi di cui si dispone. Si può fare un video e metterlo su Youtube, o realizzare un progetto assieme ad altre persone, così come si possono condividere le proprie informazioni con il barista che ti prepara il caffè la mattina, o con il fornaio o i colleghi di lavoro. Solo così sarà possibile diffondere il cambiamento. Solo così potremo sperare che il 12 e 13 giugno 25 milioni di italiani e più escano di casa e vadano a votare per i referendum.
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