E io cosa faccio?

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È passato un quarto di secolo da quando un compagno fu arrestato per una rapina. In seguito a quell’arresto un altro compagno gli scrisse, per fargli sapere che dopo l’«incidente»occorsogli, lo vedeva sotto una luce diversa, lo considerava «un uomo che merita rispetto», mentre prima lo aveva solo ritenuto «uno di quegli intellettuali, un po’ supponenti e pieni di sé». Non conosco ovviamente i motivi per cui il secondo compagno si era fatto questa idea del primo, ma non è da escludere che fosse anche influenzato dalle voci di corridoio del movimento anarchico. Che gran colpo di fortuna che la rapina sia andata male, almeno così in molti hanno avuto la prova che non era solo un parolaio – come alcuni affermavano –, uno esclusivamente seduto dietro una macchina da scrivere a criticare tutto e tutti e ad esporre teorie, ma uno che quelle stesse teorie le riversava anche nella pratica. Un anarchico, insomma.
Venticinque anni dopo, certamente influenzati dalle voci di corridoio del movimento anarchico – quelle voci che si ascoltano nelle chiacchiere tra pochi come nelle assemblee tra tanti, ai concerti come alle manifestazioni – molti affermano che alcuni compagni siano esclusivamente seduti dietro la tastiera di un computer, a criticare tutto e tutti e ad esporre teorie, insomma, a non riversare nella pratica quelle stesse teorie. A non fare un cazzo, fondamentalmente. La prova regina che fa pensare ed affermare tutto ciò non si sa esattamente quale sia, ma è probabile che il fatto di non essere stati beccati con le mani in un qualunque vasetto di marmellata contribuisca ad alimentare questo chiacchiericcio. Ah, che sfiga, non essere arrestati… Inquisiti, al massimo, ma quella è una fisima che gli inquirenti hanno nei confronti di chiunque si professi anarchico…
Ma perché prende piede e si alimenta questo squallido pettegolezzo? Perché è un sistema particolarmente comodo per screditare chi esprime dubbi e critiche – le si ritenga fondate o meno – dribblando il contenuto della critica. Anziché rispondere a questa esponendo le proprie motivazioni e con altra critica, pure altrettanto aspra e dura, si tenta di far passare i critici come gente poco degna di essere presa in considerazione, perché a parte quello non sa fare null’altro e, quindi, «non merita rispetto».
Ma ciò che preoccupa di più, in una faccenda del genere, non è la pessima abitudine al chiacchiericcio da comari, che pure non fa onore a individui che vorrebbero trasformare il mondo riproducendone la miseria, quanto lo sguardo poliziesco che lo accompagna. Al di là di ciò che uno faccia o non faccia, infatti, è la pretesa di poterne essere al corrente – da parte di compagni!, si badi – che fa specie, e il modo in cui si arriva ad avere questa pretesa. Non potendone avere notizia in prima persona – per motivi piuttosto ovvi – come si traggono queste conclusioni? Navigando nel meraviglioso mondo di internet, detentore della Verità e della Conoscenza in virtù di tutto ciò che riportano, o non riportano, i siti di movimento, per via di articoli di giornali locali e nazionali e/o rivendicazioni. Lo sguardo si fa indagatore, l’occhio scruta e tenta di leggere tra le righe, doti divinatorie si manifestano, si emettono giudizi e sentenze… questi fanno, quelli non fanno, quegli altri avrebbero potuto fare ma non hanno fatto, mentre quegli altri potevano fare di più e meglio… Vedere in ciò uno sguardo poliziesco non è una provocazione, ma un’affermazione fondata, perché è proprio nello stesso modo che spesso gli organi inquirenti avanzano le loro ipotesi investigative; è uno sguardo che sarebbe opportuno abbandonare, dato che la prima necessità, per chi voglia combattere lo Stato e l’Autorità, è non pensare e non parlare nello stesso modo.
L’opposto negativo di questa mentalità è invece pretendere di sapere cosa facciano alcuni altri, e conoscere anche il modo in cui lo farebbero. Anche questo è frutto di uno sguardo e una mentalità poliziesca, che si spinge addirittura oltre, andando al di là del fastidioso chiacchiericcio e, diventando pubblica, si tramuta in pura indicazione delatoria. Da sempre, giustamente, coloro che hanno questo modo di fare sono stati definiti infami. Ma la cosa non può fare certo scalpore, quando praticata dagli apologeti della lotta gerarchica, dai teorizzatori della verticalizzazione delle lotte, da coloro che a distanza di molti anni continuano a insinuare negli incontri pubblici, più o meno implicitamente, calunnie nei confronti di compagni che hanno pagato con la vita la loro lotta contro il TAV, quando ancora non era né popolare né di moda, e il sabotaggio non era ancora pratica condivisa.
In mezzo a questo montante mare di fango, manca invece l’unica domanda che ognuno dovrebbe farsi: ma io, cosa sto facendo e cos’altro posso fare? Porsi dei dubbi e tentare di avanzare sempre più nella propria teoria e nelle proprie pratiche, con ciò attaccando e fornendo nuovi strumenti teorici e pratici per nuovi avanzamenti, sarebbe senz’altro più utile che guardarsi attorno per tentare di capire cosa stiano facendo, o non facendo, gli altri, per non doversi trovare ancora, tra altri venticinque anni, a considerare come un colpo di fortuna qualche arresto: almeno tutti potranno sapere che l’arrestato di turno stava facendo qualcosa, e non si limitava a sedere al caldo dietro una tastiera, per criticare tutto e tutti ed esporre teorie.
Sarà considerato, allora, uno che merita rispetto!

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